“Se ol to dènt al g’ha el careul, te gh’è de ‘ndà dai Caldereul”. Ovvero, come una volta ci ha raccontato meravigliosamente il grande entomologo della Lega, Gian Antonio Stella raccogliendo un proverbio di casa nel lessico famigliare del ministro leghista: “Se il tuo dente ha una carie, devi andare dai Calderoli”. Noi, ovviamente sconsigliamo. Per una repubblica in cui di solito le riforme hanno sul Paese gli stessi effetti della piorrea sulle arcate dentarie, non è un messaggio rassicurante. Non lo è, a maggior ragione, in un paese in cui lo stesso ministro disse memorabilmente della riforma elettorale da poco varata (quella delle liste bloccate dalle segreterie di partito): “L’ho fatta io ma è una porcata”. Hi-hi-hi, che ridere: un caso – per ora non eguagliato – di apologia del misfatto istituzionale. Però non unico, perché Calderoli è così: ha sotituito al “chiagn’è fotti” di napoletana memoria il più adeguato ai tempi “Ghigna e ciula”. Lui sorride Hi-hi-hi e riscrive le regole; lui sogghigna dell’IslamHi-hi-hi ed insorge mezza Libia. Lui combatte la moschea sgozzando maialini e minacciando di spargere sangue – hi-hi-hi – e poi si compiace di aver fermato l’avanzata dell’Islam altro che la battaglia di Lepanto.
Leghismo ilare. “Il calderolismo” è da sempre una variante ilare e simbolicamente etilica, diciamo “spiritosa”, del leghismo: il buonumore più la rodomonteria, la via barzellettistica alla Padania, più lo spirito della schizofrenia creativa. Calderoli è l’uomo che aggiusta le cose con genio inventivo, uomo di mediazioni argute e di sfaceli programmati, una intelligenza votata, simpaticamente, al crimine, e per questo spesso perdonato bonariamente dagli avversari del centrosinistra. Quella volta che definì Rula Jebreal “una signora molto abbronzata”, hi-hi-hi nessunò evocò seriamente il termine razzismo. Che volete farci, è Calderoli, politicamente scorretto ma sempre divertente.
Leghismo epico e comico. Già, perché in Mario Borgezio il kulturkampf leghista è una crociata popolare ma serissima, in Roberto Maroni è un abito portato con serioso cattivismo istituzionale, in Roberto Castelli una celebrazione di padanissimo buonsenso, in Zaia una sagra paesana e serenissima. Per Bossi l’ideologia leghista è sempre stato un kolossal in cui si può anche ridere, forse, ma in cui bisogna avere una ambizione epica, anche se si sta disegnando un fumetto. Per Calderoli, invece, la comicità volontaria è uno strumento di penetrazione politica nella realtà.Hi-hi-hi che ridere la t-shirt anti-maometto esibita in televisione, però un assalto all’ambasciata e 12 morti a Bengasi.
Così, l’effetto collaterale della conquista simultanea di Piemonte e Veneto da parte della Lega, è che i destini delle riforme, e della nazione, tornano nelle sue mani. Per le caratteristiche che abbiamo detto, gli altri capi leghisti non hanno la sua stessa efficacia di scasso sul piano istituzionale. Già ieri il superministro della semplificazione normativa ha consegnato nuove bozze di riforma al Colle, il che ci preannuncia che ci divertiremo molto – come sempre quando di mezzo c’è lui – ma che per lo stesso motivo rischiamo anche qualcosa di serio. Calderoli, infatti – che come abbiamo visto è erede di una dinastia di dentisti bergamaschi, ma anche una chirurgo maxillofacciale – è uno di quei politici della seconda repubblica che hanno costruito la popria forza sul potenziale dirompente della schizofrenia. “Quando entro in Aula – disse una volta Manuela Palermi, capogruppo del Pdci – guardo chi presiede e spero tanto che sia Calderoli”. Non scherzava lei. Perchè così come era dirompente sui palcoscenici pdani, Calderoli si era fatto apprezzare per il suo rigore sugli scranni di Palazzo Madama, da vicepresidente, e da grande conduttore d’Aula. “E’ come dottor Jeckill e mister Hide!” disse a metà fra lammirazione e il turbamento un’altra ammiratrice comunista, Rina Gagliardi di RIfondazione. Lui era già entrato nel campo delle riforme nella famosa baita di Lorenzago. Cinque «saggi della baita» (oltre a lui Tremonti, D’Onofrio, Pastore e Nania) e BOssi . prima dell’ictus – che la sera si metteva al piano a cantare con un chinotto in mano. Calderoli non pensava certo che sarebbe diventato ministro quando diceva: “Ecco la ricettA: noi pedialiamo, Bossi sta al volante, e Tremonti suona la trombetta, perepepè”.
Il beria di berrgamo. Lo chiamavano il Beria di Bergamo, perché nei tempi duri della Lega era stato l’uomo che faceva a cadere le teste, compresa quella del marito di sua sorella, Luigi Negri. “Se Nossi mi chiede di espellermi – disse a Sabelli Fioretti con il consueto humour – io mi espello”. E con la stessa ironia rivendicava lo slogan della sua formazione intellettuale: “Bergamo nazione/ tutto il resto è meridione”. Non per scherzo ma per davvero si sposò con un rito celtico che era l’ostentata negazione di quello cattolico, proprio lui che ora inneggia alle “radici cattoliche del’Europa”. Purtroppo non si trovano più copie della precoce autobiografia Mutate Mutanda, ma si sa che oltre agli amati cani lupo nella sua villa di Bergamo allevò per un anno una tigre. DOpo la vittoria dell’Italia sulla Francia, lui, che aveva sognato nazionali padane, riscoprì il tifo azzurro a modo suo: “Hanno perso, immolando per il risultato la propria identità, schierando negri, islamici e comunisti». Ecco, ripercorri la biografia di Calderoli in cento righe e pensi: uomo perfetto per passare una serata in osteria. Ma non affidate a lui nè riforme federali nè dènt careul. Hi-hi-hi.
Luca Telese
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