Il tono è quello dell’ululato: “Noìì…. non possiamooòò…. Piegarciiìì….. ai ladriiiìì…. Ai ladrììii di votìiii!!!!”. Piazza Farnese, ore 17.10, si comincia così. L’intervento di Luca Malcotti, giovane dirigente dell’Ugl, si arrotonda su ogni parola, si riempie di fiati, di vocali, si manifesta sul viso dell’oratore con vampate di color porpora, e sul suo corpo attorcigliato sul podio con tremiti e preoccupanti singulti polmonari, come se davanti al microfono si fossero dati appuntamento un grumo di disperazione metafisica e un rischio di infarto imminente. Notevole. E tutto intorno – ovviamente – un catino di fuoco, di ululati, di cori, “Pi-so!- Pi-so!” (il segretario cittadino), “Ro-ma!, Ro-ma!” (la città), “Gian-ni! Gian-ni!” (il sindaco), ce n’è per tutti. Pensi: questi sono matti. Di nuovo Luca Malcotti, come poi tutti quelli che seguiranno, con diverse declinazioni, riprende ad ululare: “Questooòòò per noiììììì….. èèèèèèeee…. un colpoòò di statooooòòò!!!!! Sìììì… un colpo di statooooòòò!!!!!”. E subito dalla piazza: “Brrravòòòò!”.
Ovviamente ci sono dodici punti esclamativi che sigillano ogni parola scarlatta, la voce che si incrina e un altro boato di incoraggiamento: “Lu-ca!, Luca!”. E poi, uno sull’altro, tutti gli altri cori delle tribù che si sollevano: sono correnti, comitati elettorali, schegge di partito: ognuno grida il nome del suo candidato di riferimento, agita i manifesti della propaganda azzerata come se fossero i vessilli di un esercito sconfitto. L’adrenalina schizza a mille, e proietta i corpi sulle transenne che recingono il palco: questo è un fortino assediato, questo è un partito di governo che entra nell’arena della piazza e ne esce trasfigurato in una armata inferocita. Piove, il volume dell’amplificazione è regolato su frequenze spaccatimpani, le corde vocali stendono allo spasimo (sarà perché i volumi azzerano il senso delle parole), sul palco la scenografia è una foto delle mura antiche di Roma. E, per giunta, Silvio Berlusconi non è venuto.
Arrivi al “presidio per la democrazia” del Popolo delle libertà, in un meraviglioso squarcio di Roma monumentale, e ti pare di essere finito in un film 3D di ultima generazione, uno di quei moderni kolossal in cui si confondono i piani temporali e i costumi, la fantascienza e il sandalone: un remake de “Il Gladiatore”, ma anche – un po’ – i “Guerrieri della notte” o “Codice Genesi”. Fin dal primo intervento – quello di un altro aennino, Lollobrigida – si va verso la radicalizzazione dei toni, verso le raffiche di parole ad alzo zero. Il giovane dirigente (uno dei pilastri della corrente dei “gabbiani”) questa volta prende di mira Emma Bonino. Il punto però non è che lo faccia, ma come lo fa: “E’ lei la peggiore rappresentate della vecchia partitocrazia…. È la propagatrice di una cultura di mooorttteeee!!”. E di nuovo, anche per Lollobrigida, si levano i cori: “Lol-lo! Lol-llo!”. E lui: “Voi lo sapete cosa può accaderèèèèe, vero? Voi lo sapete che se vince la Bonino i nostri ragazzi potranno ritrovarsi a sperimentare la morte in qualche stanza del bucoòòòò? Soli, con la sola compagnia di una droga di statòòòò… E sapete le nostre donne potranno ritrovarsi ad uccidere la vita con la sperimentazione di qualche pillola abortiva???”. Risposta: “Sìììì!!!”.
Silvio stasera non viene, e forse è meglio così, perché quello che si celebra nella piazza dei gladiatori pidiellini non è un rito sano per la politica. Tutti gli oratori, scesi dal palco sanno che gli unici con cui prendersela per la cancellazione della loro lista sono loro due presentatori di lista che se se nessuno andati con il falcone. Tutti, nel capannelli della piazza non fanno che parlare del mistero dei nomi ballerini: chi doveva entrare, chi doveva uscire, Gianni con chi stava, che fine farà Samuele Piccolo, il consigliere più votato che qualcuno voleva segare. E tutti i dirigenti e i deputati, a partire da Barbara Saltamartini che presenta (Saluto Barbara Saltamartinìììì!!! Anzi no, sono io!”) sanno che nelle stesse ore in cui si grida al Colpo di Stato, si tratta anche con il Pd per capire se le elezioni possono essere rinviate di un mese. Ma allo stesso tempo, è come se proprio perché slegata dalla realtà, la sceneggiatura gladiatoria – con tutte le sue inverosimili esasperazioni – fosse l’unica partitura possibile rimasta. Qui bisogna gridare la rabbia e la parola grossa, perché se ci si ferma un attimo a pensare non ci si può prendere sul serio. Qui in piazza Farnese, il nuovissimo partito del predellino si scompone e si decompone, si riduce a una stratigrafia di storie giustapposte, quella che D’Alema, a sinistra, ha definito “l’amalgama mal riuscita”. E se poi prendi questa stratigrafia ed arrivi al suo grado zero, scopri che l’ultima lingua rimasta è una lingua antichissima, una lingua paleo-missina, che non è più nemmeno quella del fantasioso popolarismo della destra sociale romana (alla Teodoro Buontempo, per intenderci), ma è quella dell’emarginazione e del senso di sconfitta, quella dei fascisti catacombali che si aggiravano prima del 1948 per il paese convinti di avere la catastrofe sulle spalle e nessuna cittadinanza nella nuova repubblica, “Stranieri in patria”.
Il primo presidio di piazza Santi Apostoli, sparuto ma tonico, popolato di immagini contradditorie e non omogenee, dagli immigrati polveriniani, ai volti dell’associazionismo, in soli quattro giorni si è virato di premonizioni tragiche: la paura di essere rigettati ai margini, di finire fuori gioco, di perdere le postazioni guadagnate in venti anni di politica. Fa quasi impressione vedere la classe dirigente strutturatissima e preparatissima di An a Roma, piegata al richiamo delle lingue tribali, ai codici dello Stadio in cui i bandieroni del Popolo di Roma (lista elettorale alemanniana) si confondono con quelli della Roma (squadra di calcio). Ecco Fabrizio Cicchetto: “La nostral ista è stata bloccata da un tentativo di operazione autoritariaààà”. “Ecco Gasparri: “Ci batteremo con tutte le forzèèèè”. Ecco i cori: “Chi non salta Comunista è!” (ovviamente). Così, quando arriva Renata Polverini e si mette a cantare Lucio Battisti (letteralmente: prende spunto da un cartello), è come se fossero arrivati gli artificieri a disinnescare il tritolo: “Come può uno scoglio/ arginare il mare”, canta Renata. La lista è riammessa, l’inciucetto elettorale è nell’aria. Silvio per la prima volta non è venuto in piazza. Qui, nella Roma dei gladiatori arrabbiati, si grida e si canta. Chi l’avrebbe detto: il partito dell’amore in agonia, avvelenato dall’odio.
di Luca Telese
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