Quando vado a intervistare Riccardo Scamarcio ho un dubbio che mi scava dentro, l'idea che la sua biografia contenga un qualche segreto nascosto. C'era un buco apparentemente non spiegato fra i due Riccardo che conosciamo. Da un lato quello che da ragazzo non vuole studiare, va male a scuola, e dice con autoironia di aver impiegato il suo tempo in una adolescenza pugliese dissipata. E dall'altro quello che parlando con grande padronanza intellettuale degli anni di piombo, del cinema, del suo rapporto tra la cultura del nostro paese e il suo passato, improvvisamente mi dice: “E' un'esperienza antropofasica”. Caspita. Un lessico così forbito, da mettere al tappeto tutti i critici che hanno cercato di appiccicargli l'etichetta di indolo delle teen agers, le ormai mitiche “Scamarcine” costringendoli a cercare soccorso nel vocabolario. Dimenticatevi lo Scamarcio-pop, il Mocciamorfico, quindi, e prendetelo terribilmente sul serio.
Incontro Riccardo nella sua casa meravigliosa romana con affaccio monumentale mozzafiato. Quando ad un certo punto squilla il telefonino, lui risponde “Amore” e assume un tono mielato. Interrompiamo l'intervista: mi devo alzare per resistere alla tentazione di origliare la telefonata con Valeria Golino, che come sanno anche i sassi, è la sua compagna. Lo osservo: si presenta in jeans e maglione, sorrisi contenuti ma radiosi che ogni tanto si allargano sul cipiglio del famoso sguardo da “bel tenebroso” (quello che lo ha reso famoso nel mondo) illuminando tutto intorno. Scamarcio sta per tornare sul grande schermo con il ruolo da protagonista in Mine vaganti l'ultimo film di Ferzan Ozpetec, una commedia raffinata e divertente, che ricorda molto più lo stile picaresco di “Le fate ignoranti”, che quello mistico di “Cuore sacro”. Un copione giocato sull'equivoco, sui paradossi, sui ruoli della vita, e soprattutto sul male di vivere tenendosi dentro una omosessualità non dichiarata in una città del sud. Il suo ultimo anno, dal punto di vista artistico, è stato pazzesco: “Il grande sogno” con Placido il più importante film italiano a Venezia, “Verso l'Eden” con Costa Gavras, diretto da un mostro sacro del cinema mondiale. Adesso il suo personaggio è il perno di un piccolo melodramma corale.
Riccardo, cosa ti ha conquistato di questo film?
“E' una commedia degli equivoci, un film di genere, ma costruito per riflettere. Dentro c'è tutto lo sguardo di Ferzan, le sue riflessioni, la sua ironia. La prima mina vagante E' lui”.
Che rapporto avevate, voi due, così diversi?
“Sul set Ferzan è un regista unico. Ti fa battute pesanti, urla, lancia suggerimenti continui. Ma è il modo in cui ti tratta, ovviamente, che non ha precedenti”.
Tipo?
“Chiamava pure me, ad alta voce, con appellativi irriferibili, tipo 'Ma guarda tu sta-pazza!'”.
Turbato?
“Anzi. La cosa mi divertiva molto, Ti senti subito di casa”.
Il simbolo del machismo non si concilia con gli appellativi tipici del mondo gay?
“Mannò, figurati. La cosa unica, invece, è proprio questa: il modo in cui lui ti tira dentro un clima”.
Quale era la difficoltà più grande, leggendo il copione?
“Quello di Tommaso era un ruolo pieno di problemi. Lui ha un carattere passivo. Non tutela i propri desideri. Vive di riflesso sugli altri”.
Lo hai interpretato per sottrazione.
“Se gli metti un accento qualunque su un ruolo così, una caratterizzazione, lo banalizzi subito”.
Però lo hai disegnato lo stesso.
“Per trovare i confini di questo personaggio mi sono calato nella sua psicologia ricostruendola a partire dagli indizi che avevo. Tommaso vive il suo mondo interiore a partire da una sorta di naturale capacità di osservazione. Infatti immagina se stesso come un potenziale scrittore”.
Non tutto è definito sul copione.
“No, per fortuna quasi mai. Ci sono delle coordinate dentro cui ti puoi muovere”.
E poi che succede?
“Mentre lo immagini così, il personaggio acquista volume davanti ai tuoi occhi. Nessuno comprende i suoi bisogni, e tutti lo considerano un caro ragazzo, ma un anello debole. E invece, dietro questa apparente fragilità, nessuno ha intuito la sua reale forza”.
Il punto di partenza è folgorante: lui vorrebbe fare coming out, ma quando lo racconta al fratello, quello lo precede.
“E' vero. Ma Tommaso non subisce soltanto. E' lui che decide a cosa rinunciare e perché: mi piaceva raccontare questo confine sottile, questa falsa apparenza”.
Tutto questo lo rendi per sottrazione. Come ci arrivi?
Mentre faccio questo scavo del personaggio inizio ad avere delle idee su come raccontarlo. Che ne so: per Tommaso è un certo modo di incrociare le braccia. Una certa morbidezza del corpo, della camminata. Me lo immagino lungo e sottile, fisicamente fragile, e interiormente solido”.
Tutto il contrario del tuo Sergio Segio, il terrorista della Prima Linea. Crespuscolare e sconfitto.
“Era l'esatto opposto. Quasi catatonico, implesso, ricurvo. Qui il peso del corpo doveva essere distribuito diversamente, le spalle incurvate, il passo indolente”.
Hai letto decine di libri per documentarti?
“Ho letto. Ma la cosa più importante è stato incontrare Segio. Questi sono uomini che si portano i segni della loro vita addosso, per trent'anni. Non ho inventato nulla, ho solo provato a riprodurlo”.
Segio era furibondo. Ha parlato di una manipolazione orwelliana.
“Per tutti è difficile riconoscersi nel corpo di un altro. Immagina per un ex terrorista. Detto questo una delle obiezioni era vera: non abbiamo approfondito i motivi del suo ingresso nella lotta armata, abbiamo solo raccontato l'epilogo tragico di un percorso”.
Hai detto, in una intervista a Magazine che sei più vicino alla scuola interiore di Mastroianni, che a quella metamorfica di Volontè.
“Era una battuta esemplificativa, però il senso è quello: potremmo citare anche Redford e De Niro….
Che ingrassava quaranta chili per fare “Toro scatenato”…
“Per me non è una scelta di campo ideologica tra un modello e l'altro. Io, se faccio un grande sforzo per cambiare la mia maschera fisica, magari perdo di vista quella interiore. Recitare davanti alla cinepresa è un linguaggio compiuto, è come tratteggiare un codice di segni con il corpo”.
Tutti questi dettagli arrivano a tutti gli spettatori?
“La cosa che più mi piace del cinema è proprio questa. La macchina da presa abbatte le distanze. Chi ti guarda sul grande schermo ti si attacca a due centimetri dalla pelle: arriva tutto se sei così vicino. Ci hai mai pensato? Nemmeno con gli amici, si può fare, solo tra innamorati”.
Ma se è così, dev'essere difficilissimo controllare tutto.
“I segni di cui parlo non li decido. Li scopro dopo, sullo schermo, ed è bellissimo”.
Alla luce di tutto questo, le polemiche secondo cui mettere il bel Scamarcio a interpretare Segio sarebbe stato “oggettivamente apologetico” sembrano meschine.
“A queste stronzate non voglio nemmeno rispondere. Sono solo la proiezione di una grande immaturità civile di questo paese”.
Cosa intendi?
“Con i drammi che abbiamo nella nostra storia, per raccontare davvero il terrorismo ci vorrebbe un decalogo. Qui non te ne fanno fare nemmeno uno, di film, perché viene killerato dalle polemiche e dai veti…. figurati cosa accadrebbe al temerario Kieslowsky italiano se solo si azzardasse nell'impresa”.
Sei così pessimista?
“Sì, in Italia è sempre più difficile fare film di approfondimento, incidere i nodi controversi. Ti chiedono di stare sopra la superficie delle cose, short and fast, come si dice in America. Vogliono che il pubblico resti cullato nella sua inconsapevolezza”.
Ecco lo Scamarcio di sinistra che entra in scena.
(Ride) “Non banalizzare: anarchico insurrezionalista, come minimo”.
Sei stato uno dei simboli della vittoria di Vendola alle primarie. Boccia sostenuto da Califano, Nichi da te, che tornavi da Hollywood per presentare la sua kermesse…
(si fa serio). “Attenzione. Io non sono andato a sostenere Vendola da attore schierato, ma da cittadino pugliese. Non riuscivo proprio a capire come il Pd non capisse che i suoi cinque anni di governo hanno prodotto un consenso diffuso, popolare, vero”.
Tu sei ancora molto radicato, in Puglia.
“Certo. Ti potrei dire del Pil della regione che aumenta dell'8%, del limite sui nanogrammi di diossina, che passa da 10 a 1. Del fatto che la Puglia è la prima regione per produzione di energia rinnovabile….”
Perché ti sei fermato?
(Sorride ironico) “Ma le possiamo dire queste cose in una intervista a un periodico della Mondadori?”.
Certo. Al massimo le censuro io poi.
“….Allora ti dico l'ultima, sul mio lavoro. Grazie all'impegno della Puglia film fiction, ho girato due film in un anno nella mia regione. In tutti gli anni di carriera, prima di allora, nessuno”.
Quando è avvenuto questo passaggio della tua vita dallo Scamarcio scavezzacollo all'intellettuale informato?
“E' avvenuto grazie al cinema”.
Non andavi a scuola, e tuo padre ti prese a fare il rappresentante di carni, sveglia alle cinque del mattino.
“Mi è servito molto”.
Ma la vocazione di attore quando è arrivata?
“L'ho scoperta a 16 anni, quando dopo essere salito su un palcoscenico di Andria per recitare la parte del marchesino Eugenio in Miseria e Nobiltà di Scarpetta dissi a me stesso: 'Voglio fare solo questo, io, l'attore'”.
Te la ricordi ancora quel copione, il primo della tua vita?
“Se mi chiedi le parole precise no. Ho un ricordo strano emozionale, quasi fotografico: sono dietro le quinte, provo disagio. Primo segnale; secondo segnale, in scena. E io che voglio scappare via con tutto me stesso. Invece dico la prima battuta, vinco il terrore e la timidezza e tutto cambia”.
Cosa ti tiene incollato sul palco, in quel momento?
“Ho capito che gli attori sono come dei medium, veicolano energie. E' per questo che fra l'attore e il pubblico, quando le cose vanno come devono, si crea un rapporti dionisiaco, quasi erotico. E' un buon motivo per non scappare”.
Ma è vera questa storia della maturità che hai preso facendo quattro anni in uno?
“Erano due. Ed era l'unico modo che avevo per entrare al centro sperimentale: prendere la maturità”.
I tuoi genitori avevano accettato l'idea che tu potessi andare a Roma a fare l'attore?
(Risata sonora) “Erano così disperati, così disperati… che non gli pareva vero. Anzi, tifavano: 'Se non ti prendono qui è finita'”.
Incoraggiante.
“Vuoi divertirti? Allora, l'obiettivo è quello, io studio come un matto. Arrivo all'esame come un proiettile, tutte le materie, una confusione pazzesca nella testa… Insomma, miracolosamente prendo il minimo. Però sono raggionate”.
Vorrei vedere….
“Torno a casa. Mio padre era convinto che mi avessero bocciato e incredulo domandava: 'Ma quanto hai preso?'”.
E tu cosa gli hai detto?
“La verità. Avevo preso sessanta. Solo che era il primo anno della riforma, era il voto minimo. Papà invece gridava: 'Sessanta! Sessanta! E' incredibile'”.
Il tuo primo lavoro era stato con lui, negli anni in cui marinavi la scuola.
“La mia prima paghetta era 50mila lire al mese. Con lui rifornivamo le macellerie. Poi, per guadagnare di più e da solo, ho fatto il rappresentante di articoli pubblicitari”.
Momenti memorabili?
“Quando unii con una trovata le due esperienze”.
Ovvero?
“Comprai dei camici bianchi, personalizzarli con la stampa del logo della macelleria, per poi rivenderli a dei clienti con un ricarico”.
E' stato un palcoscenico anche quello.
“Tu ci scherzi ma è così. Se non avessi dovuto vendere quei camici, non avrei tirato fuori una parte di me che mi è servita in scena”.
Anche quando hai cambiato genere non hai mai rinnegato le scamarcine che ti inseguono dappertutto e nei blog ti chiamano “Skmrc”.
Ma è vero che una bambina di nove anni ti ha fermato con aria candida e ti ha detto: 'Mi scopi'?”
(Allarga gli occhi, arrossisce) “Sì. Credo che queste cose le ascoltino dalle sorelle maggiori. Spero”.
Sei considerato uno sciupafemmine, hai avuto due grandi storie in venti anni.
“Curioso, vero?”
A Vittorio Zincone ha raccontato che sei un fan di Beppe Grillo.
“E' vero. Anche di Marco Travaglio, se è per questo. Ho passato 37 minuti, l'altro giorno, a sentire il suo messaggio del lunedì su internet in integrale”.
Adesso sei l'attore più pagato del cinema italiano.
“Tu dici?”
Lo dice Ciak.
“Forse tra i giovani, chissà”.
Quanti milioni di euro hai sul conto?
“Scherzi? Non mi lamento, so di essere un privilegiato, ma non sono ricco, la ricchezza è un'altra cosa!”.
Non è che ti vergogni della ricchezza?
“Ma figurati. Semmai Sono orgoglioso di questo: pago il 51% per cento di tasse e non evado un solo centesimo Non so quanti altri lo facciano, a giudicare i dati fiscali”.
I tuoi ti avevano chiamato Riccardo Dario.
“Terribile. Nun se po' sentì….”.
Ma che fai, lo dici alla romana?
“Senti, il bello di essere attore e di vivere in due mondi, è che puoi scegliere la lingua che ti racconta meglio”.
In pugliese veniva meno bene?
“Avrei dovuto dire una cosa del tipo: 'Cus me pare proprio nu' trimòne!'. Lo senti? Non suona per niente bene…”.
Sei così controllato?
“Scherzi? Per nulla. La vera mina vagante, qui, sono io”.
Luca Telese
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