Luca Telese

Il sito web ufficiale del giornalista Luca Telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Christian De Sica

Per tutti, in Italia, è lui il simbolo della commedia popolare, del film di Natale, dei cine-panettoni. Invece Christian De Sica questa volta spiazza tutti, e si cala nei panni di un ruolo drammatico, serio. Costruisce una ennesima maschera italiana, ma stavolta lo fa recitando in un film d’autore, chiamato da Pupi Avati ad un ruolo da protagonista, a trent’anni dal loro primo film insieme: “Bordella” (che è del 1973). L’intervista comincia da questo cambio registro, ma contiene anche una riflessione a sorpresa che sfiora la minaccia sui cinepanettoni: “Se mi vogliono ancora dentro, l’anno prossimo, dovranno cambiare la formula”. In “Il figlio più piccolo” Christian recita al fianco di Luca Zingaretti (che sul grande schermo interpreta un personaggio ancora più cinico del suo), di Laura Morante e di un giovane esordiente, Nicola Nocella (“Bravissimo, sarà una rivelazione”). E poi racconta delle sue due prime volte. Sul palcoscenico di attore domestico (da bambino). E su quello di Sanremo, possibile cantate: “Fu una tragedia”.
Sei stato in dubbio se accettare la proposta di Avati?
“Nemmeno un minuto. Trent’anni fa, quando abbiamo lavorato la prima volta insieme io ero un ragazzino, e Pupi sembrava la controfigura di Francesco Guccini”
Cioè?
“Beh, era giovane, barbuto e rivoluzionario. Oggi è un maestro, un saggio, un grande raccontatore di uomini e di storie italiane, forse uno dei pochi veri eredi del cinema di mio padre. Ahi…”.
Ahi cosa?
“Aldo Grasso mi rimprovera di citare sempre mio padre, ci sono ricascato”.
E’ grave?
“Ma come si fa non citarlo? Io non lo considero un atto di presunzione, ma di umiltà, perché per me è un riferimento un parametro con cui misurare il mondo”.
Il tuo ruolo, sulla carta, è…
“Da gran figlio di mignotta, lo so”.
Un padre yuppie che prova a scaricare sul figlio il crack della sua società.
“Sì, totalmente amorale, con un solo momento di umanità. Una grande scena”.
Dici che ti ritrovi sempre a recitare dei ruoli che non ti corrispondono.
“Anche i personaggi dei miei film di Natale di solito sono sempre romani, misogini, un po’ gaglioffi e paraculi. Quelli a livelli caricaturale, questo personaggio di Pupi lo è a livello introspettivo e profondo”.
Come sono i fratelli Avati?
“Io non ho mai visto un produttore rincorrere le maestranze per dargli la paga. Carlo è così. Tu pensa che a Cinecittà, durante le riprese allestivano tavoli fra gli alberi per pranzare tutti insieme. Vivono il cinema con lo spirito delle compagnie teatrali del settecento”.
E’ stato facile cambiare passo, per entrare in questo copione?
“Per nulla. All’inizio c’era Pupi che durante i ciack mi gridava: ‘Sei falso, falso, falso’”.
Addirittura.
“La cosa peggiore è stata quando mi ha detto: ‘Stai recitando! Non recitare più’”.
Non ti sei offeso?
“Macché, aveva ragione. Io ormai sono mezzo sordo da un orecchio, ho 59 anni, e all’inizio cercavo di sfruttare i vecchi trucchi del mestiere per cavarmela”.
Esagerato…
“In certe scene, per stare la passo devo seguire il labiale… E così ricorri al tono della voce, alle tue espressioni tipiche. Ma Pupi era inflessibile: basta con i cliché”.
Fino a questo film, molti ti considerano un prigioniero dorato dei cinepanettoni. Cambieranno idea?
“E chi lo sa? Mia moglie Silvia, che mi ama, dice che io posso essere come Travolta, che è stato reinventato da Tarantino. Io spero che tutti capiscano che Christian può essere usato anche in un’altra maniera”.
Quindi il film di natale pesa.
“Eh, eh, eh… Pensa che Pupi in una scena, mi fa uscire dal carcere d’estate, con un panettone in mano”.
Una metafora perfida?
“No, figurati. Non ha di queste malizie. Era per dare l’idea di un personaggio stralunato, ma ha fatto riflettere me”.
Su cosa?
“E’ vero che se sbanchi al botteghino come Cow Boy è difficile che ti vengano a proporre il ruolo di Giulietta, in Romeo e Giulietta”.
Una tua frase leggendaria: “E’ più facile recitare L’Amleto, che il cinepanettone”.
“Ma è vero: se sei un cane e fai Amleto, hai sempre dietro Shakespeare. Se sei un cane e sei protagonista di un cinepanettone dietro non c’è nulla. E drammaticamente si vede”.
Hai detto che i film di Natale mantengono il cinema italiano.
“No: Cazzullo mi ha fatto una bellissima intervista in cui c’era una sola frase che poteva essere equivocata. Io ho ricordato che il cinepanettone incassa 21 milioni di euro. E che molti di questi soldi i produttori li reinvestono nel cinema. Non è una smargiassata ma una constatazione”.
Molti critici questo Natale tifavano per Sherlock Holmes al botteghino.
“Posso dire che è una fesseria? Non è che se il cinepanettone va meale le sale vanno a Citto Maselli! Le danno a un altro film americano”.
Adesso farai arrabbiare Citto.
“Ho rispetto per il suo cinema, invece. Ma il nostro è un'altra cosa, è una industria che da mangiare a migliaia di persone. Non tollero lo snobismo aristocratico e falso di quelli che pensano di conquistare patenti di intellettualità dandoci addosso. Anche perché poi se scrivono di Ben Stiller, che col turpiloquio non scherza, ti dicono che è il nuovo Chaplin!”.
Quest’anno però c’è stata davvero una flessione di incassi.
“Figurati, hanno stappato lo champagne. Michele Anselmi subito ha fatto il conto: da 24 a 21 milioni di euro. Ma perché sono pochi? E’ quanto incassa una manovra finanziaria!”.
Quindi l’hanno prossimo lo rifai a occhi chiusi?
“No, al contrario, ma i critici non c’entrano. E’ vero che quest’anno qualche parolaccia andava limitata, che la formula rischia l’usura. Gli autori dovranno fare una sforzo di fantasia in più”.
E’ una minaccia?
“No, solo una regola. Da tavola ci si deve alzare con ancora un po’ di appetito. Se mi vogliono dentro dovranno fare uno sforzo di fantasia”.
Carlo Verdone era tuo compagno di scuola…
(sorriso) “Purtroppo sì”.
E poi ha sposato tua sorella Silvia ed è diventato tuo cognato…
(Sospirone). “…Come sopra”.
Lui racconta: “Christian veniva scuola con l’autista, la sciarpa al collo e la giacca infilata nei pantaloni. Per questo gli tiravamo tutti i panini addosso. Ma a me divenne simpatico”.
(Risata sonora). “Queste sono le solite stronzate di Carlo”.
Non era vero?
“La giacca nei pantaloni… Ma quando mai? Questa è la vena surreale espressionista di Carlo. Che poi una cosa vera c’è: a scuola mi accompagnava l’autista. Solo che, eh, eh….”.
Cosa?
“Ad esser sinceri fino in fondo l’autista ce lo aveva pure lui, visto che suo padre era un critico e un dirigente. La verità è che Carlo era molto più borghese di me”.
A 21 anni, nel 1973, la tua prima grande occasione, il festival di Sanremo con “Mondo mio”.
“No, ti prego, non scherziamo”.
In che senso?
“Allora: intanto era il tempo in cui i dischi si vendevano, e io avevo fatto 350mila copie con ‘Io non so che mi sto innamorando’”.
Quindi più di un’occasione, una consacrazione.
“Macché! Fu una cosa sfigatissima. Era l’anno in cui Sanremo era boicottato… Figurati, l’unica volta nella storia che non andò nemmeno in diretta sulla Rai!”.
Incredibile.
“E poi mi hanno cacciato la prima sera, con Mike Bongiorno che mi guardava stranito. Altro che occasione, peggio di così…”.
Allora la tua prima vera occasione è stato il film con Roberto Rossellini, Blaise Pascal, 1971. Non compare nemmeno nella tua filmografia, perché?
“Ma sai perché lo feci?”
Perchè eri fidanzato con Isabella?
“Che ridere. Però è vero. L’avevo bombardato, Renzo: ‘Me la dai un parte? Me la dai?”.
Lui lo fece.
“Era un film televisivo. Dovevamo essere in un luogo esotico, e invece eravamo a Frascati: ero un bel tenente in divisa, e mi ricordavo che al primo ciack, mi tremavano le gambe”.
Ed era vero?
“Proprio pochi giorni fa sono stato a pranzo a casa di Isabella, a New York, per il suo compleanno, e abbiamo ricordato l’episodio. Lei ancora ci ride su: ‘Mi ricordo che eri bianco come un cencio, terrorizzato’”.
Questa emozione con il tempo va via….
“Beh, adesso sì. Ho fatto ‘Parlami con me’, il mio musical, al nuovo di Milano. Mi sono rotto una gamba e sono andato in scena lo stesso. E chi mi ammazza a me? Era come stare in casa mia”.
Ma la prima primissima volta in scena quando è stata? Quando facevi gli spettacolini per tuo padre?
“Eravamo ancora bambini. Lui arrivava con dei copioni scritti per me e per mio fratello Manuel”.
Su che?
“Ricordo ancora i titoli. Cose come: ‘ì suicidi’… Oppure: ‘I cittadini protestano’”.
C’erano proprio le battute sceneggiate?
“Come no? C’erano pure le luci, il chitarrista, nel salone della nostra casa vicino a piazza Bologna”.
Mancava solo il pubblico.
“Magari. Papà invitava i suoi amici. Che però, purtroppo per noi, erano la gente del cinema. Ricordo Gino Cervi, Paolo Stoppa, Rita Morelli… C’era gente come Renato Rascel capisci? Come stare davanti aun plotone d’esecuzione”.
E come andava finire?
“Che mio padre si divertiva molto. E io e Manuel per nulla”.
A casa tua poteva capitare Renè Clair che provava le luci con le tende, Errol Flynt che ti trova sul vasino e si siede a fianco, su quello di tuo fratello…
“Capisci? Un miracolo che non ci siamo suicidati”.
Racconti di aver scoperto di avere un’altra famiglia e una sorella a 18 anni.
“Ho amato mio padre per i suoi difetti. Era nato nel 1901, quando sono nato aveva cinquant’anni e la sua morale borghese. Pranzava a casa tutte le sere, ma non aveva il coraggio di confessarci di esserci risposato. Un giorno ci chiamò mia sorella Emi, di cui ignoravamo l’esistenza, e mi disse: ‘Voglio incontrarvi, possiamo conoscerci a villa Glori?’ E così andò”.
Gli hanno negato i funerali in Chiesa.
“Perché era stato comunista e aveva fatto il picchetto a Togliatti. Una follia, io so quanto gli avrebbe fatto piacere una benedizione”.
A Silvia fumarola hai detto una frase meravigliosa: “Quando sei ‘figlio di’ il cognome bisogna farselo perdonare”.
“E’ vero. Non mi sono mai montato la testa. Quando è morto mio padre ero obeso, non avevo un avvenire, entravo nelle stanze dei produttori e gli leggevo negli occhi: ‘Cosa vuole questo?’”.
Una buona partenza.
“La verità è che ero un ragazzino, un piscione. Ho iniziato a sentirmi indipendente a 39 anni”.
Però hai detto anche che è difficile convivere anche con il successo.
“Intendiamoci, sono la persona più felice del mondo, contento della gente che mi ferma per strada come se fossi amico da sempre e mi grida: ‘Bella Christian!’. Però….
Però?
“E’ anche vero che, al contrario dell’America questo paese non ti perdona nulla Penso sempre a mio padre che vinse un Oscar e non andò a ritirarlo. Gli chiesi: come mai? ‘Perché non mi va di affrontare l’invidia’”.
Sei figlio di Maria Mercader, un tuo zio era stato agente segreto e assassino di Trotsky.
“Buono, mica ch’ho duecento anni! Era un lontano cugino di mia madre, è morto a Cuba prima che nascessi. I Mercader erano aristocrazia catalana e comunista”.
Ma il vero Christian De Sica chi è?
“Questo. Quando eravamo a Miami per girare gli spot della Tim io e Silvia in un giorno siamo partiti in macchina per andare a Cape cod a visitare la casa di Hemingway: 2mila chilometri andata e ritorno. E’ stato un viaggio bellissimo, unico. Siamo sfranti ma entusiasti. Ecco, vorrei non perdere mai questa capacità di emozionarmi. Perché, per fortuna, ce l’ho ancora”.

Luca Telese


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7 risposte a “Christian De Sica”

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