Non se n’è accorto nessuno, ma ridendo e scherzando sono passati dieci anni. Infatti, secondo il primo vero storico della seconda repubblica, Filippo Ceccarelli, “i lothar dalemiani” nacquero dieci anni fa. Oggi, l’anniversario è curioso: qualcuno si è fatto ricrescere i capelli, altri si sono divisi, qualcuno ha persino litigato. Il leader che allora era in ascesa è appannato, e contende la poltrona del Copasir ad un suo discepolo.
Un biglietto fatale. Lo scenario invece, allora era questo. Natale 1999: nelle redazioni e nelle caselle postali che contano della politica arrivò un biglietto di auguri firmato in modo inconsueto: “Lo staff”. Il gruppo era in pista dal 1997, ma quello era un ingresso in scena, un atto di nascita. Il sottointeso era che si trattava del suo staff, quello del lìder maximo, lo stesso Massimo D’Alema che in quel turbolento anno passava dalla leadership dei Ds a Palazzo Chigi.
Foto posate. In quei giorni almeno tre dei fotografi più à la page della politica italiana – Roberto Koch, Augusto Casasoli, e Antonio Scattolon – iniziarono a portare sulle scrivanie delle redazioni delle foto posate, informali e curiose. Solitamente in mezzo c’era D’Alema; intorno, in posa conviviale, a metà fra un ipotetico brain storming e il cazzeggio c’erano loro. Lothar perché tutti rasati a zero. Una trovata di look, ovviamente. Anche se poi, per minimizzare, Claudio Velardi ha spiegato: “Fesserìe! Ci radevamo perché non avevamo capelli”. Ma intanto, visti tutti insieme un po’ di impressione la facevano. Alcuni erano collaboratori, altri – come Marco Minniti – dirigenti politici, altri ancora collaboratori che – come Nicola Latorre – grazie allo staff diventavano politici. Ma tutti (tranne uno, Gianni Cuperlo, anche lui deputato, oggi) avevano teste lucide come palle di biliardo, in omaggio al Lothar di Mandrake. Erano oggetto di amore (poco) e di disamore (tanto). Poco amati dalla base, invidiati dai dirigenti, oggetto degli strali degli opinion leader.
Pezze al culo. In una storica assemblea dei girotondi, a Testaccio, Marco Travaglio disse: “C’è gente che è entrata a Palazzo Chigi con le pezze al culo, e ne è uscita miliardaria”. Il soggetto nominale non era precisato, ma si risentirono almeno in due: D’Alema annunciò querela (ma non andò a fondo) e Velardi (che la fece davvero). Nulla di fatto, ovviamente. Anche perché poco dopo Fabrizio Rondolino, che di D’Alema fu portavoce, disinnescò qualunque possibile causa con una candida autocertificazione: “Per me, disse a Claudio Sabelli Fioretti, era cominciata una vita nuova. Una benedizione. Come consulente di Palazzo Chigi guadagnavo 70 milioni lordi l’anno. Adesso denuncio 300 milioni l’anno, sono “famoso”, il mio narcisismo è soddisfatto”. Erano così: un epifenomeno della politica che cambiava, a sinistra. Dicevano quello che molti altri nel loro ambiente pensavano ma per pudore tacevano. Che dire di questo ritrattino di D’Alema fatto da Velardi? “Il leader è un narcisista, una persona totalmente autocentrata. Chi gli sta vicino deve evitare che esageri. D’Alema si lamentava perché alle 8.30 avevo letto i giornali e cominciavo a dargli addosso: “Hai sbagliato tutto”… “Hai fatto tutte cazzate”… “Ti stai fottendo”.
Libri & capezzoli. Rondolino, mentre era a Palazzo Chigi pubblicò un libro per la Einaudi, Secondo Avviso, che conteneva due capitoli con pagine fortemente erotiche. Furono anticipate, nello stupore generale, da un articolo anonimo de Il Foglio e da uno di Concita De Gregorio su La Repubblica. Il primo era previsto (Rondolino mi confessò: “L’avevo passato io stesso a Ferrara, per una calcolata autopromozione”). Il secondo invece no, e conteneva brani come questo: “Lo spettacolo del membro di Giovanni arrossato piantato in mezzo alle chiappe di Beatrice è straordinario. Ezio non resiste e spruzza in faccia alla troia”. Era troppo anche per gli standard non troppo puritani della seconda repubblica. La penna perfida di Vincino disegnò un cranio lothariano con un capezzolo in testa. Poi su Panorama uscì un’intervista (non autorizzata) di Giancarlo Perna a Simona Ercolani, moglie di Rondolino: “Ogni volta che esce una nuova rivista porno in edicola io e Fabrizio la compriamo e la leggiamo insieme”. Il 20 febbraio, il giorno dopo, Rondolino si dimetteva. Non fu una sciagura personale ma – come ha raccontato lui stesso – l’inizio di una nuova vita.
Carriere. Anche Latorre faceva carriera: da segretario di D’Alema a senatore (elezioni suppletive) e oggi vicecapogruppo Pd a Palazzo Madama. Anche Minniti fece un balzo in avanti: da dirigente locale a deputato, presidente della Viola Basket di Reggio Calabria (“Quando c’ero io trionfava”, precisa adesso) a sottosegretario alla difesa, con tanto di volo con tuta sui Tornado. Il paradosso dei Lothar è che – piano piano – inziarono a fare ombra anche a Mandrake. Ognuno seguendo la sua vocazione, certo, ma passando dal ruolo di portatori a quello di protagonisti. Velardi dopo palazzo Chigi divenne consulente di immagine con la sua agenzia Runner, poi grand commis con Reti, infine editore con il Riformista, venduto agli Angelucci: “Feci un sacco di soldi, non c’è dubbio”. Gli venne persino in mente di tornare alla politica. Da assessore al Turismo in Campania invitò a “non andare a votare”. Troppo anche per lui. “Era un mio collaboratore 12 anni fa – disse D’Alema – adesso deve dimettersi”. L’ultima perla è uscita postuma. Fu la giornalista Alessandra Sardoni a pubblicare nel suo bel libro sulla crisi del centrosinistra (Il fantasma del leader, Marsilio) un documento inedito dei tempi di Palazzo Chigi. Lo avevano scritto, nel luglio 1997, sempre loro: Velardi e Rondolino. Profetizzava una strategia per portare il lìder al Quirinale: Ma era il tono dell’analisi prospettata a D’Alema a suonare choccante: “Il partito, inteso come ceto politico, è un cane morto. Il suo stato – si leggeva nel testo – è sotto ogni punto di vista desolante: il gruppo dirigente nazionale è in buona parte formato da inetti, i gruppi dirigenti locali sono del tutto al di sotto della funzione. Sarebbe illusorio credere che la nascita della Cosa 2 possa diventare l’occasione per una rifondazione del partito, che non può essere rianimato. Dobbiamo aggirare l’ostacolo. Si potrebbe parlare di una crescente ‘staffizzazione’ del Pds. Dobbiamo pensare il Pds come una delle componenti del comitato elettorale di Massimo D’Alema”. Questo intento riuscì, ma non giovò né al leader, né alla coalizione, né al partito. Mentre non c’è dubbio che i Lothar abbiano trionfato. L’ultima notizia è che D’Alema oggi aspira alla presidenza del Copasir, il comitato sui servizi che è stato scippato da Francesco Rutelli ad Artuiro Parisi e a cui ora aspirava (legittimamente), anche Minniti. Ancora una volta chi sale e chi scende. È vero che Minniti nell’ultimo congresso ha sostenuto Franceschini. Ma il dato simbolico è un altro: per uno che è stato candidato alla presidenza di Montecitorio, della Repubblica, al ministero degli Esteri europeo (senza mai arrivarci) competere con un suo ex lothar – forse – è una certificazione malinconica.
Luca Telese
IL LìDER MAXIMO BIOGRAFIA IPERSINTETICA
Anche i sassi lo sanno: Massimo D’Alema è nato figlio d’arte, sulle orme di Giuseppe, segretario mancato della Fgci, poi deputato e dirigente del Pci. Il primo passo della carriera del fanciullo: mazzo di fiori a Togliatti con fazzoletto rosso al collo. Il Migliore dopo il discorso (pare) che disse: “Questo non è un bimbo, ma un nano!”. D’Alema diventa segretario della Fgci nel pieno della contestazione: memorabile spezzone di tv con lui impassibile al fianco dell’indiano metropolitano Gandalf che lo sfotte (1977). Romanzo di formazione in Puglia, da segretario regionale: non ha un soldo, non mette mai i jeans, gioca a Risiko con i compagni e fatica ad affermarsi sui babbioni. Poi il salto all’organizzazione del Pci. Poi la direzione de l’Unità, dove giocava a Tetris nello stanzone dei caporedattori. Quindi numero due di Occhetto a Botteghe Oscure (fino a fargli le scarpe). Quindi duellante di Walter Veltroni nel 1994 (e per altri 15 anni), anche se entrambi dicono il contrario. Quindi organizzatore di “dalemoni” (Sabina Guzzanti) e siluratore di Prodi (anche se lui giura che non ci fu “complotto”). Non gli è riuscito di diventare ministro europeo: la cosa ha rattristato sia i fan che i detrattori (che speravano di vederlo fuori dall’Italia).
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