La foto che hanno scattato il 23 è un simbolo. E’ vero, Piazza Vittorio è un quartiere etnico. Ma da quando? A via Machiavelli, proprio a un passo dalla piazza, un barbiere romano di settant’anni, che lavora con tre ragazzi del bangladesh. I capelli li tagliano loro. Lui se ne sta seduto su una delle poltrone, fa cassa, legge tutto il giorno il Corriere dello sport e dice: “Ma quale integrazzione e integrazzione… Noi romani l’integrazzione l’amo già fatta duemila anni fa, già coi… ‘cosi’…”. Quali cosi? Lui si illumina: “Coi numìdi!”. Evito di indagare sui fondamenti storici. Ogni tanto, però, provo a suggerire al barbiere che l’esempio non sia del tutto appropriato. Mi guarda stranito: “E perché mai, scusa?”. I numìdi erano schiavi, obietto. Lui sospira, scuote la testa: “Embè? E’ uguale! Sempre integrazzione è”.
Forse ha ragione. Perché a san Salvario, a Barriera di Milano, nelle tante kasbe d’Italia, quelle che producono paura sociale e miti che turbano i sonni dei cittadini probi preoccupati per la salvaguardia della (presunta) identità italiana, non troveresti due apprendisti del Bangladesh in una barberia in cui si parla solo di Totti e della Roma, con di fronte la videoteca araba, al lato l’osteria all’amatriciana e sotto il magazzino dei cinesi. In fondo alla via la bandiera con i quattro mori di un ristorante sardo, poi si sbocca nella piazza. Bastano trecento metri per scoprire che qui a piazza Vittorio il modello di integrazione non è quello buonista conciliare eecumenico, ma quello pagano, imperiale precattolico: indolente, fatalista e terribilmente pragmatico.
Piazza Vittorio è una specie di gioiello raro, incastonato fra mondi diversi. Una terra di confine, ma anche un muscolo cardiaco che pompa vita e sangue nelle arterie di Roma: la capisci anche se la vedi dall’alto, o sull’impronta topografica del Tuttocittà. E’ una piazza verticale enorme, ristrutturata da poco. D’estate ci fanno il cinema, di giorno ci bivaccano gli stranieri e ci giocano i bambini, di mattina presto trovi un gruppo di coreani che si mettono come uno sciame intorno al maestro e riproduce le sue figurazioni rallentate, mimi del karate. Ogni tanto arriva una cicciona romana con la tuta e la fascia in fronte: nessuno dice nulla, si accoda pure lei (come può). Piazza Vittorio è questo. Sull’angolo di via dello Statuto ci sta Mas, Magazzini allo Statuto: l’unico posto al mondo dove puoi compare un maglione con tre euro, una t-shirt con due, e tutto il repertorio di fureria militare con poco più. Dice Walter Veltroni: “Il marciapiede della piazza è lungo 15 metri, il più largo d’Europa”. Non ho mai trovato il modo di verificare le misure: ma la suggestione rende. Piazza Vittorio nasce come punto focale del quartiere Umbertino, come invenzione urbanistica, insieme a Roma Capitale. I portici larghi, l’edilizia borghese per i colletti bianchi; le soffitte e gli ammezzati nei cortili per la servitù e per le governanti. Ma i torinesi, come accadde per i diplomatici destinati da Rio a Brasilia, di venire non ne volevano sapere. Così sciamarono verso Prati e i Parioli, e in piazza arrivò il popolino romano, fin da allora promiscuamente contaminato con i signori. Poi venne il più grande mercato di Roma, e odore di pesce a qualsiasi ora, finché Veltroni non lo chiuse dentro la caserma Diaz. Piazza Vittorio è un’isola che nella sua pancia custodisce i reperti dell’antico quartiere Esquilino. Anche allora era un luogo di confine: alla suburra (Monti) le case dei ricchi, sul Colle i parvenu, come Cicerone. Adesso, intorno alla gemma rettangolare della piazza ogni giro di Bussola racconta una storia diversa. Facciamolo insieme questo giro. Il lato est si stringe e si avvita intorno alla stazione, correndo lungo la ferrovia. E’ quello più selvaggio, presidiato dagli africani. Il quadrante più vicino alla piazza, invece, è in mano agli indiani. Come se fossero a Londra, si sono disegnati il loro reticolo di strade, e lì e Esquilinistan a tutti gli effetti. A sud e a Nord, invece, si espandono per lungo i negozi dei cinesi. Con le loro botteghe misteriose, atelier fantasma che vendono non più di cinque modelli, e scaricano non meno di cinquecento colli al giorno. Ogni tanto incontri un negozio addobbato con draghi e ceri rossi: un tempio. Le quattro altane sono bellissime, una l’ha comprata il regista Matteo Garrone. Verso ovest si va nel privilegio. Le vie che corrono a pettine verso Colle Oppio cambiano repentinamente faccia, dopo essere state tagliate da via Merulana, e diventano subito borghesi e signorili, degradando verso Colle Oppio. Nel parco, poi convivono tutti: le tate sudamericane che si riuniscono ia giardinetti, i barboni che si mettono in coda a via delle Sette Chiese per la mensa della Caritas, gli universitari che vanno a mangiare a via , e i (post) fascisti che si infilarono in rudere del parco nel 1945 e che ancora sono lì con An. Quelli che ancora si dicono fascisti, invece, stanno nel lato nord, nel palazzone di Casapound. Sul frontale hanno persino incassato il nome a lettere di marmo: sembra un reperto del ventennio, non l’hanno messo un anno fa. Infine quelli del bangladesh: stanno dovunque, ma non li vedi, non danno noia a nessuno. Stanno dovunque, ma non li vedi: li trovi solo la sera, davanti a certi minimarket o ai negozi per la chiamate all’estero. O davanti alla bottega di Kibria, che vende le scarpe agli italiani ed è diventato ricco, un piccolo leader. Nella parallela, a via Buonarroti, introno al supermaket di Thomas Obijaku ci sono invece gli africani. Nel 2006 Kibria ha tappezzato il quartiere con una sua foto di quando era ragazzo ed è stato eletto in consiglio comunale. Le elezioni dei membri stranieri qui sono passate come un turbine: manifesti arabi, indi, persino sick. Tutta la babele di piazza Vittorio per provare a parlare la stessa lingua dei faccioni e dei santini elettorali. E’ la democrazia che rende tutti uguali.
In mezzo alla piazza, sul lato lungo che si affaccia su Colle Oppio sosta da dieci anni una camionetta dei carabinieri. Ma Esquilino, malgrado i tentativi di insufflare aria di pogrom è l’ultimo quartiere per numero di reati procapite. Negli asili di via Conte verde i bimbi stranieri sono il 70-80%: ma parlano un italiano cristallino. Una sola volta la piazza esplose d’ira. Fu quando nel gennaio 2007 Mary e Ashib, una madre e un bambino di 10 anni, del Bangladesh, morirono dopo essersi buttati dalla finestra per un rogo. Accidentale, colpa del sovraffollamento, disse la polizia. Provocato da una coinquilina romana, penso la comunità. La piazza diventò un catino di fuoco, in un corteo di rabbia. Mai così tanti del Bangladesh, insieme. Mai così arrabbiati. Poi la calma tornò. Guardate questa foto. Questo quartiere lo racconta meglio di qualsiasi chiacchiera l’orchestra di piazza Vittorio: tunisini, equadoregni, cubani, argentini, persino un ungherese. Se questa musica suona e fa il giro del mondo, e perché la forza della contaminazione, numìdi o non numìdi, gira vorticosamente intorno al perno della piazza. E prevale su tutto. Idiozie xenofobe comprese.
Luca Telese
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