A un certo punto le chiedo, forse in maniera ingenua, come ci sia riuscita. Allora Giovanna Mezzogiorno si fa serissima: “Come ho fatto? Semplice. Anzi, molto difficile, se vuoi: ho cercato di rappresentare Susanna nel modo più respingente possibile. Più andavo avanti con il lavoro sul personaggio, più lo scavavo nelle sue sfaccettature, più mi rendevo conto che non era possibile renderla in maniera positiva. Quello che vedi nel film è il frutto di questo lavoro impietoso. Su di lei. Ma poi anche su di me”. Gli attori veramente grandi si misurano dalla capacità di calarsi nei ruoli più difficili: maschere che non portano gloria, tipi antropologici inquietanti, figure paradossalmente improbabili o realisticamente sgradevoli. Bisogna passare anche di lì. Per un attore, rendere un personaggio in questo modo, significa rinunciare al proprio narcisismo, combattere una parte di se. E’ lungo questa strada che Giovanna Mezzogiorno è diventata una terrorista.
Dal prossimo mese, quando nei cinema di tutta Italia uscirà “la Prima linea”, potrete ammirarla nell’interpretazione forse più convincente e problematica della sua carriera; vederla nella parte di Susanna Ronconi, una delle poche terroriste che può vantare una doppia militanza armata, dalle Brigate Rosse a Prima linea. Il film che da questo gruppo terroristico prende il nome, La Prima Linea di Renato De Maria (un rigoroso lavoro di scavo su una delle pagine più cupe degli anni di piombo) non sarebbe credibile senza questa prova della Mezzogiorno: Giovanna si incarna nella parte di Susanna senza regalarle un solo frammento di simpatia scontata, senza umanizzazioni banali, senza cadere nei cliché demoniaci e apologetici. Lo fa senza un filo di trucco, ma con un lavoro notevole su proprio corpo: ingoffendosi, ricostruendo un linguaggio di gesti tutto diverso dal suo. Intervisto Giovanna una domenica mattina: partiamo da racconto di una vita fuori registro, negli anni di piombo, e finiamo di parlare di tutto, nel tempo delle veline. Passando per suo padre, per i film di Natale (che non farà) per la sua autoanalisi quasi impietosa: “Lo so, non posso farci nulla. Sono una intransigente”.
Giovanna, quanto hai esitato prima di accettare un ruolo obiettivamente difficile?
“In realtà provavo una attrazione tutta particolare per quel tempo, anche per motivi privati”.
Cioè?
“Per anni mi sono interrogata su quest’epoca strana, che ha indotto dei ragazzi fra i 18 e i 25 anni a imboccare un cammino violento e irreversibile. E…”.
Cosa?
“Nella famiglia di mia madre ci sono state delle persone che hanno lambito in modo drammatico la stagione degli anni di piombo. La mia prima domanda era semplice: perché?”.
E poi?
“Quella successiva è stata come. E’ cresciuta dentro di me un interesse antropologico, molto più del semplice bisogno di capire. Ho letto molti libri, mi sono calata dentro quella storia, passando – per dire – da ‘Miccia corta’, il libro di Sergio Segio che ha ispirato il film a ‘Io l’Infame’, l’autobiografia di Patrizio Peci, il primo pentito delle Brigate rosse”.
Un interesse superiore a quello richiesto dal copione.
“Se ci pensi gli anni Settanta non sono entrati nei libri di scuola della mia generazione. Eppure sono stati gli anni che ci hanno consegnato il paese così come è oggi”.
Hai chiesto di poter incontrare la Ronconi.
“Sì, ho voluto questo confronto. Le opre passate con lei mi hanno restituito il ritratto di una donna che custodisce dentro di se una grande durezza e una determinazione quasi spietata. Non è un caso che Segio si sia dissociato dalla lotta armata e lei, che pure era la sua compagna non abbia voluto farlo”.
Cosa ti ha dato, in più delle letture, il faccia a faccia?
“Ho avuto l’impressione che ancora oggi Susanna ponga una camera d’aria, un sigillo tra il mondo e la propria sensibilità. Le ex terroriste sono donne che hanno ucciso la loro femminilità anche sul piano gestuale. Ho dovuto cambiare il mio modo di camminare e muovere il corpo per provare a raccontare tutto questo”.
Quale era il rischio più grande di questa parte?
“In questi anni ho visto delle terroriste, sul grande schermo, che parevano dei robot. Volti saltati fuori da qualche sala di un museo delle cere, visi terrei, sguardi torvi, sorrisi feroci”.
E invece?
“E invece, insieme al suo carico di durezza, Susanna è una donna che ride che parla ad alta voce, che si diverte… Così la sfida si è fatta interessante. Bisogna provare a raccontare anche il male, senza avere paura di esserne sedotti e senza rifugiarsi nell’anatema o nella caricatura”.
Vai in Francia a promuovere Vincere, di Marco Belllocchio, in cui reciti la parte di Ida Dalser, la donna che si presume sia stata la prima compagna di Mussolini. Una donna travolta dalla passione. Più difficile o più facile come parte?
“Altrettanto, se non più, difficile. In Ida la contraddizione era quasi esistenziale: una donna innamorata, ma segnata dall’obiettivo di distruggere l’uomo che ama. Una donna moderna, ma dominata da schemi arcaici. Il rischio era di non perdere un aspetto o l’altro”.
Prima di accettare un personaggio duro, “un mostro”, ti interroghi sui rischi che comporta per la tua immagine?
“Io faccio questo lavoro per un mio percorso di ricerca artistica, non per andare sulle copertine dei giornali”.
E la rotta del percorso quale è?
“Una sola. Andare a scoprire quello che non conosco”.
Susanna Ronconi ha visto il film?
“Sì, abbiamo ricevuto una mail da lei”.
Non era soddisfatta?
“Leggendola mi sono resa conto che si immaginava di trovare una venatura di romanticismo, in questo racconto, che secondo lei era indispensabile per raccontare come loro si sentivano”.
Secondo voi invece no?
“Per noi La Prima linea è il racconto di una fine. Non ci interessava la grandeur. Per noi, quella evasione è un funerale della lotta armata, il canto del cigno”.
Hai raccontato la preparazione, ma cosa hai capito dopo esserti vista nel film?
“Siamo riusciti a raccontare bene un disperato senso di solitudine, di questi ultimi terroristi. Sono soli come dei cani. Non c’è eroismo, non ci sono più sogni per loro”.
Il film non è ha ancora uscito, ma hai ricevuto molte critiche.
“Alcune, sui giornali, da parte di gente che non ha ancora visto il film, e questo mi pare un paradosso”.
Altre?
“Anche da amici che mi chiedevano perché avessi accettato questa parte”.
Sei stata Ilaria Alpi, sei stata la pasionaria comunista di Del Perduto amore… perché sei andata a sceglierti un ruolo dalla parte del torto?
“Queste critiche mi paiono pregiudiziali. Credo di aver acquisito una credibilità professionale. So che a molti in Italia potrebbe non piacere questo film. Ma nessuno può immaginare che io faccia una operazione furba su un tema così delicato”.
Se è per questo vi ha attaccato anche il ministro Bondi
“Il ministro Bondi? Vabbè”.
Come “vabbè”?
“Vabbè per non dire di più, che non se lo merita. E’ un altro che non ha visto il film”.
Cos’è per te una operazione furba per la carriera?
“Un film fatto predicando un obiettivo per realizzarne un altro”.
Che cosa non ti perdoneresti di aver accettato fra i copioni che hai respinto?
“Se domani facessi un film di Natale, o uno sulle vacanze, non sarei me stessa. Il che non vuol dire che sia sbagliato farli quei film. Sono io che non posso farlo senza mettere in discussione parte della mia storia”.
Diranno: ecco, la Mezzogiorno fa la snob.
“Non ho nessuno snobismo. Per dire: un attore che stimo molto, Fabio De Luigi ha fatto molti di quei film. Difendo il mio diritto a dire che a me non piacciono: che hanno un messaggio sottointeso che io non voglio sottoscrivere”.
E quale è, il messaggio subliminale di certi cinepanettoni?
“Che alla gente gli puoi anche dare anche il peggio, anche la merda: tanto non se ne accorge”.
Non hai paura di aprire troppo dura, intransigente?
“Io sono intransigente. E molto dura, anche con me stessa. Non posso farci nulla”.
Allora dimmi almeno un copione che hai rifiutato.
“Il sequel dell’Ultimo bacio. Quando ho finito di leggere il trattamento ero preoccupata solo dal fatto che me l’avessero offerta”.
Però hai appena girato una commedia di Rocco Papaleo, Basilicata coast to coast.
“Non sono mica una monaca, una integralista del cinema d’autore. Mi piacciono i ruoli leggeri, questa è una commedia molto divertente”.
Hai prodotto Negli Occhi, un documentario sulla vita di tuo padre. Era una cosa che volevi fare da anni?
(sorride) “Non ci pensavo minimamente. L’ho fatto perché mi è stato proposto, da due ragazzi molto in gamba”.
E quando l’hai visto hai scoperto qualcosa che non ti aspettavi?
“Mi ha fatto impressione vedere come la gente parlava di lui. Sono stata colpita del fatto che tutti abbiano accettato subito di farsi intervistare, che mio padre sia riuscito a lasciare una traccia così forte di sè”.
E’ impossibile, essendo una figlia attrice, non misurarsi con un padre attore.
“In questo film, si vede molto bene un’aura di energia che mio padre aveva lasciato intorno a se. E non posso fare a meno di registrare il senso di missione con cui lui e gli attori della sua generazione si sono spesi. Erano tempi più facili, forse. Ma la differenza con i miei coetanei salta all’occhio”.
Sbaglia o sta per affiorare di nuovo la Mezzogiorno intransigente?
“Oggi c’è una concessione eccessiva alla vanità”.
Nel mondo del cinema non è il difetto più antico del mondo?
“Non voglio sembrare una che vuol dare pagelle. So bene che c’è gente che se ne va a fare lo stage in Siberia a meno 50. Però il tono generale che percepisco è quello, non posso farci nulla”.
Non sei così arcigna come vuoi apparire. Hai persino una passione per il calcio.
“Non sono una grande esperta, ma mi piace vedere le partite, è vero. Mi diverte la dimensione corale di certi incontri, vedergli con gli amici, entrare nella dimensione drammaturgica del calcio”.
Quando all'estero ti chiedono di Berlusconi che rispondi?
“Mi vergogno di quello che sta accadendo Non si può spiegare”.
Ma se hai del tempo per te che cosa fai?
“Non ho nessuna ambizione mondana”.
Chissà perchè me lo immaginavo…
“Non scherzo. Anche io a volte mi chiedo: se a 34 ani sono così, figurati come diventerò seriosa a 50”.
E in attesa di peggiorare cosa fai?
“Se ne ho la possibilità la cosa più bella che riesco a immaginarmi è andarmene nella mia casetta di montagna in Molise, con il mio compagno”.
E se per caso trovassi un paparazzo appostato fra le rocce?
“Credo che potrebbero accadere solo due cose. O scoppio a piangere o lo invito a prendere un caffè”.
Temevo che gli rompessi la macchina fotografica in testa.
“No. Tra i mille difetti che ho, non c’è la violenza, per ora”.
Quattro anni fa, in una intervista, dicevi che se uno non li cerca, i paparazzi loro ti lasciano in pace.
“Ho detto questo? Allora è vero. Anche se poi, una volta ho trovato su un settimanale popolare un lungo reportage su di me che, al supermercato, compro una melanzana”.
E c’è qualcosa che ti fa arrabbiare in questo? Fossero baci rubati…
“A costo di sembrare pignola: non posso fare a meno di chiedermi perché un giornale pretende di imporre alla gente la mia melanzana come se fosse una notizia”.
Dopo questi ruoli importanti ti senti arrivata?
“Sono arrivata ad un punto, sicuramente. Ma riesco, per fortuna, ancora a intravedere la via della ripartenza”.
Dove ti immagini tra dieci anni, che cosa ti manca ancora?
“Quello che mi manca non è un obiettivo specifico. Non è un regista, non è una parte, non è un successo di botteghino”.
E cosa allora?
“E’ il giusto equilibrio tra la curiosità e la tranquillità che servono per scoprire altri personaggi così. Nuovi, diversi, difficili come Susanna: personaggi che ti fanno crescere. Questo prima di ripiegarmi definitivamente su me stessa, spero, il più tardi possibile”.
Luca Telese
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