In fondo è tutto nello sguardo algido di Giovanna Mezzogiorno. Se dopo il suicidio di Nadia Blefari, avete voglia di provare a decrittare la morale segreta dei terroristi, di squarciare le cortine di fumo, di enigma e di oblio, che continuano ad avvolgere gli anni di piombo, per provare a recuperare un altro frammento di verità, andate al cinema a vedere “La Prima linea”. Il film che Renato De Maria ha tratto da “Miccia corta” di Sergio Segio (uno dei più tormentati testi memoriali scritti da un ex terrorista) sarà nelle sale dal 20 novembre e viene presentato alla stampa, a Roma, questa settimana: ma chi scrive ha avuto la fortuna di vederlo in anteprima (è stato proiettato al Festival di Toronto), poco più di un mese fa, e in queste ore vive uno strano cortocircuito di immagini fra passato e presente, fra realtà e rappresentazione. Dove la cronaca esaurisce la sua pista, il racconto cinematografico offre nuove tracce e nuove possibili chiavi di interpretazione.
Passato & presente. Certo, il film, ritmato dall’ipnotica colonna sonora di Max Richter (Eurooscar con Valzer con Bashir), racconta l’ultima disperata impresa degli epigoni di Prima linea, fra il dicembre del 1980 e il gennaio del 1981: l’evasione (riuscita) organizzata da Sergio Segio, uno dei leader del più spietato gruppo armato italiano (secondo solo alle Brigate rosse per fatti di sangue) per far fuggire dal carcere la sua compagna di allora: Susanna Ronconi. La Blefari, invece, appartiene all’ultima folle generazione di brigatisti, quella che in Italia ha continuato a sparare e a progettare omicidi fino alla fine degli anni Novanta. Ma se per caso andrete a vedere “La Prima linea” scoprirete una magistrale interpretazione di Giovanna Mezzogiorno, che si cala nei panni della Ronconi e riesce a parlare non solo di lei, ma di tutte le terroriste, di tutti i fanatismi, di tutti i giovani bruciati dalla stagione delle utopie avvelenate. Devo confessare che sono corso a vedere il film combattuto fra la curiosità e un pregiudizio (negativo). Non ero convinto fino in fondo dei due libri scritti da Segio, e dalla linea narrativa di Miccia corta, tutta centrata sull’azione, sul racconto di un attentato vittorioso. Non ero contento dell’ennesima storia narrata “dalla parte” dei terroristi, assumendo le loro memorie come palinsesto per ricostruire la storia, partendo sempre dal punto di vista dei carnefici e mai da quello delle vittime. E’ uno dei tanti paradossi italiani il fatto che il sequestro Moro ci sia stato raccontato dai carcerieri dell’ex presidente della Dc, e che uno dei film più importanti di questi anni, Buongiorno notte, pur essendo un capolavoro cinematografico sia sostanzialmente modellato su Il prigioniero, l’autobiografia (terribilmente) autoindulgente di Annalaura Braghetti. Quella in cui Prospero Gallinari cura amorevolmente i canarini e i brigatisti (poverini) vogliono tutti salvare la vita di Moro. Quando a scrivere sono gli ex della lotta armata (e chi sposa la loro ricostruzione) i terroristi diventano sempre ragazzoni generosi e magari un po’ pasticcioni, sognatori in buona fede, gente che si è abbandonata solo a qualche eccesso di troppo, e si è prontamente ravveduto: è la piaga del revisionismo filo-brigatista. Ovviamente non era così, e non è così. In questi film e in questi libri (ad esempio quelli di Renato Curcio e di Mario Moretti) il tono è l’amarcord, la morale è tendenzialmente assolutoria. Persino una grande invenzione di regia di Bellocchio (il sogno della carceriera che immagina la liberazione di Moro) diventa una trasfigurazione falsificata della realtà. L’incantevole sorriso di Maya Sansa, in Buongiorno notte, ci rassicura e ci riempie di comprensione, ma non ci aiuta a spiegare l’assurdità del terrore, la ferocia rivoluzionaria di un pugno di ragazzi che con le P38 in mano andò a fare strage nelle piazze, l’istinto suicida di una ragazza che si impicca in carcere nel 2009 e che sotto processo spiega: “Avrei voluto torturare Marco Biagi”. Nella sala di Toronto, per la prima volta, il pubblico ha assistito al ribaltamento di questo schema. E a dare il segno a Miccia corta è davvero lo sguardo algido di Giovanna Mezzogiorno, quello che per la prima volta trova una misura credibile della realtà, e respinge i due stereotipi falsi del cinema italiano: quello del terrorista umanissimo, e quello dell’automa fanatico ed omicida (ad esempio la Sonia Bergamasco de “La Meglio gioventù”). De Maria ricostruire la misura giusta dalla prima sequenza. Immagina un interrogatorio-monologico di Segio-Scamarcio, ripercorre la tragedia delle stragi col repertorio e poi immagina una storia che si svolge con unità di tempo, di luogo e azione il giorno dell’evasione. Il sapore giusto lo fornisce la fotografia: grigia, crepuscolare, senza speranza, la colonna sonora, dolente e suggestiva.
Discesa agli inferi.Pochi sapienti flashback inquadrano i personaggi. E poi tutto il senso dell’evasione viene rovesciato. Non una trionfalistica azione di guerra, ma una lenta e inesorabile discesa agli inferi. Il film di De Maria è bello proprio perché “tradisce” il libro di Segio e nella sequenza dell’omicidio del giudice Alessandrini mette lo spettatore dalla parte del magistrato e non del killer. Non una liberazione, ma un precipizio. Scamarcio-Segio questo stato d’animo lo racconta benissimo: “Avevamo scambiato il tramonto con l’alba”. Oppure: “Non sogno mai che vinciamo. E’ tutto sbagliato, capovolto”. E anche, in uno dei dialoghi più drammatici, quello fra il protagonista e un amico del movimento che non lo ha seguito: “Siete la Prima linea di un esercito che non c’è. Adesso tutti parlano di voi come dei matti”.
Bondi & gli altri. Il film, oggetto di polemiche preventive da parte del ministro Sandro Bondi (che minaccia di revocargli il finanziamento) è stato già attaccato da alcuni parenti delle vittime che però, al pari del ministro non hanno visto il film. Ebbene, chi lo andrà a vedere scoprirà un poema dolente e triste che rifiuta qualsiasi apologia della lotta armata. C’è un solo errore storico: quello di considerare l’omicidio Alessandrini “solo” come una spietata azione militare (fu invece il più folle e ideologico dei delitti: colpire il buion magistrato perchè rafforzava lo Stato). Ma, su tutto, dominano l’espressione anaffettiva di Scamarcio e la meravigliosa maschera della Mezzogiorno: la sua Ronconi è crudele, ma non è disumana. E’ assassina, ma non sterotipata. E’ irriducibile ma non è disperata. Ama, con grande passione: ma ama le cose sbagliate. Se volete capire qualcosa dell’enigma degli anni di piombo andate a vedere il film di De Maria, e lo sguardo della Mezzogiorno nella scena in cui rifiuta la resa dalla lotta armata con un bacio. Non è la risposta. Ma l’emozione spiazzante che bisogna provare per arrivarci. Di fronte al vero enigma identitario della storia italiana, non è poco.
Luca Telese
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