La recensione.
Non so abbastanza di Luca Telese. Il retro di copertina si limita a informare che “è diventato un giovane comunista nel 1984”, ma non precisa se e quando ha smesso di esserlo. Di professione è giornalista e dal 1999 lavora al “Giornale” di Berlusconi. Non so che cosa vi abbia scritto, né lo voglio sapere (ora è passato a “Il Fatto Quotidiano” di Antonio Padellaro cui auguro lunga vita). So soltanto che l’autore di Cuori neri ha scritto un libro libero e straordinario (Qualcuno era comunista. Dalla caduta del Muro alla fine del PCI: come i comunisti italiani sono diventati ex e post, pp. 745, € 22, Sperling & Kupfer, Milano 2009), al punto di provocare una sorta di muro del silenzio mediatico, salvo qualche compitino di circostanza o di colleganza. Spesso un indizio che segnala qualità di cultura politica.
Effettivamente di muri si tratta, perché Telese ha approfittato del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino per riproporre, in tutta la sua maestà – lo dico senza ironia e spiegherò perché -, lo sconquasso che ha provocato nel Partito comunista italiano. Lo ha fatto con un metodo solo apparentemente ostico, in realtà il più congruo per rendere una grande esperienza collettiva. Il filo narrativo esiste, non è nemmeno difficile seguirlo, ma la cronologia è totalmente al suo servizio, nel senso che si alternano vorticosamente presente, passato remoto, passato prossimo, futuro. Da Togliatti ancora al Hotel Lux di Mosca al congresso attuale del Pd, anche se il punto focale è la ricostruzione della svolta, la “cosa” di Occhetto.
La documentazione su cui è fondato costituisce la prima caratteristica che fa meritare a questo libro l’epiteto di straordinario; ricca al punto di correre il rischio di risultare ridondante, soprattutto quando l’autore prende troppo sul serio i suoi colleghi-giornalisti politici. In una recensione peraltro elogiativa dei tre volumi dedicati alle origini della prima guerra mondiale dal direttore e proprietario del “Corriere della Sera”, Luigi Albertini, A. J. P. Taylor, grande storico delle relazioni internazionali, osservava che il giornalista, come uno scoiattolo, conserva tutto ciò che ha racimolato, mentre lo storico deve buttarne via i nove decimi, dopo averli assimilati. Telese costituisce un caso a parte perché, pur convinto che non esistano le condizioni per una sintesi (parola magica anche per gli storici, oltre che nella liturgia del Pci, come egli stesso spiega), diversamente dai giornalisti-scoiattoli, seleziona in maniera perspicace il materiale utile alle tante sintesi che, per ora, i singoli lettori formeranno nelle loro teste. In questo senso Qualcuno era comunista non è la storia della svolta del Pci e della sua dissoluzione, bensì un insieme per il quale lettori attuali e futuri storici devono essere grati all’autore per il lavoro di scavo che ha effettuato e per il gusto che proveranno nel valutare la qualità dei reperti dissotterrati!
Per lo più egli segue il precetto che Gaetano Salvemini impartiva ai suoi laureandi e dottorandi di Messina, Firenze e Harvard, ricordando loro che non vi è nulla di più inedito dell’edito. Infatti l’autore incrocia memorialistica vecchia e nuova, sfuggita ai più, interviste e articoli di giornale, riletture certosine di relazioni a congressi e comitati centrali, per estrarvi con successo, nel bel mezzo di tonnellate di ciarpame, l’episodio realmente significativo ai fini interpretativi. Laddove gli si rivela un buco, trattandosi di storia recente con testimoni vivi e vegeti, Telese li va a cercare, per intervistarli con professionalità di giornalista e discernimento di storico. Solitamente predilige il protagonista minore, il testimone specifico, l’insider ingiustamente trascurato dai media e umanamente desideroso di raccontare la sua parte con cognizione di causa. Informazioni e giudizi di personaggi quali Iginio Ariemma, Antonello Falomi e Massimo De Angelis – i migliori collaboratori di Achille Occhetto – sono delle perle senza le quali si rischia di non cogliere le difficoltà, ma anche le tensioni ideali che circondarono quella svolta. Sempre in uno spirito di generosa quanto rispettosa apertura, l’autore va alla ricerca di altri preziosi testimoni, dai Lothar di Massimo D’Alema – con Claudio Velardi che si vanta di avere orchestrato e manipolato, insieme con il migliorista Minopoli e in barba a Claudio Petruccioli, lo scacco della mancata elezione a segretario di Occhetto a conclusione del congresso di Rimini – a preziosi simpatizzanti o antipatizzanti culturalmente significativi, quali Nanni Moretti, Sergio Staino, Michele Serra e Luciano Canfora, oppure militanti comunisti quali Mario Benedetti, benzinaio di Enrico Berlinguer della sezione Ponte Milvio, e Gianni Marchetto, delegato operaio di Mirafiori, che assurge addirittura all’onore del retro di copertina: “I comunisti, quando perdono l’idea della Rivoluzione, perdono il senso dell’avventura, diventano gente noiosa e anche pericolosa”. Per non dimenticare il militante semianonimo di Bari che spontaneamente esprime il paradosso che spiega il formarsi di una maggioranza intorno a Occhetto nel congresso di Bologna e in quello dissolutivo di Rimini: “Se il partito ha deciso che deve sciogliersi, vuol dire che il partito ha ragione”. Parafrasando il detto francese, “la vérité sort de la bouche des militants!”. E i grandi capi protagonisti? Telese mica li ignora, ma li affronta con un’avvertenza che costituisce una sorta di vademecum per chi, in clima di sovraesposizione mediatica, deve scandagliare la memoria di protagonisti: “…gli stessi racconti, detti e ripetuti fino alla nausea, si erano come calcificati nelle teste dei D’Alema, degli Occhetto, dei Mussi, fino a sostituirsi, con una ricostruzione alterata, alla realtà dei fatti. Fino a contraddirsi l’un l’altro. Spesso non consapevolmente, e talvolta per l’influenza dei fatti successivi”.
È la generosità intellettuale (e umana, ne sono certo) dell’autore che, usando con parsimonia la propria voce, è favorito nell’ascolto di quella altrui. La sua è una rappresentazione di una realtà plurale più che corale – la coralità esiste, ma canti e controcanti, alternati a singole romanze e qualche stecca, finiscono per sopprimerla -, nutrita di episodi e citazioni. È come se, a vent’anni di distanza, egli fosse riuscito a emulare in forma storico-letteraria l’impresa cinematografica di Nanni Moretti, offrendo ai partecipanti, con generosità ripeto, l’onore cui hanno diritto. Mi spiego con qualche esempio che corrisponde a richiami a un passato non tanto remoto, indispensabile per comprendere il seguito. Telese riferisce un dialogo tra Togliatti e Davide Lajolo in cui Lajolo chiede al Migliore se sia vero che egli ha partecipato alla condanna ideologica dei dirigenti polacchi perciò fucilati da Stalin: “Togliatti lo guarda fisso negli occhi: ‘Si’, gli risponde lento. (…) (Lajolo): ‘Come hai potuto farlo se conoscevi ed eri certo della lealtà politica dei compagni?’. Togliatti: ‘Sarebbe necessario un lungo discorso, per rifare la storia di quegli anni. Ma se avessi tenuto un altro contegno, avrei subìto la stessa sorte’. (Lajolo), quasi polemico: ‘Gramsci al tuo posto cosa avrebbe fatto?’. (…) Il segretario del PCI si prende una pausa, e poi dice solo: ‘Sarebbe morto’”.
Episodio edito, certamente, anche se ormai dimenticato. Manipolato dal “Voltagabbana” confesso (cioè Lajolo)? Possibile; nei dettagli addirittura probabile. Abbiamo a che fare con scrittori che citano altri scrittori, sicuramente sensibili al fascino del veritiero, secondo Montanelli più vero della verità nuda e cruda. In ogni caso trattasi del richiamo a una maledetta realtà storica, indispensabile per comprendere una delle dimensioni fondamentali di quanto avvenne negli anni successivi e con la stessa svolta della Bolognina. Accanto ad altri episodi che richiamano fatti ancora più significativi per la luce che gettano sulla peculiarità di quanto in Italia si dissolse dopo la caduta del Muro: la conclusione stessa della conversazione di Lajolo con Togliatti: “Ho fatto di tutto per evitare quel clima di sospetto in Italia”. Il Pci fu anche un partito di libertà, della pubblicazione imposta da Luigi Longo del memoriale di Yalta contro i tentativi sovietici di impossessarsene per evitarne la diffusione. Il Partito comunista che condanna l’invasione della Cecoslovacchia a dodici anni dall’approvazione di quella dell’Ungheria. Insomma, il Pci-giraffa, animale assurdo che tuttavia esiste in natura. Per quanto tempo?
Ma è su Berlinguer che l’autore, pur nel suo pluralismo interpretativo, mostra i suoi veri colori. È la difesa di Berlinguer a suscitare il suo unico lampo d’ira, quando accusa di volgarità Fassino (cfr. Piero Fassino, Per passione, Rizzoli, 2003; “L’Indice”, 2003, n. 10), per averne collegato la morte al presunto esaurimento della sua strategia politica. È con lo strappo effettuato da Berlinguer a Mosca e riportato sulle prime pagine della stampa mondiale, in nome di “Una società che garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà di cultura, dell’arte e delle scienze”, che Telese apre il suo racconto. È di Berlinguer una delle citazioni più gustose (cfr. Massimo D’Alema, A Mosca l’ultima volta, Donzelli, 2004; “L’Indice”, 2004, n. 12): “Vedi, questa è la prima legge del socialismo reale. La prima: i dirigenti mentono sempre, anche quando non sarebbe necessario. La seconda: l’agricoltura non funziona, mai, in nessuno di questi Paesi. La terza, facci caso (…) è che le caramelle hanno sempre la carta attaccata”. Una rottura con l’Unione Sovietica che, giustamente, Telese mette in rapporto con l’attentato alla vita di Berlinguer, effettuato a Sofia nel 1973, secondo la testimonianza ormai consolidata e inequivoca di sua moglie e del fratello Giovanni. È soprattutto significativa la rivisitazione dell’intervista a Berlinguer di Giampaolo Pansa di cui si ricorda soltanto l’apprezzamento per l’ombrello difensivo fornito dalla Nato, mentre è passata nel dimenticatoio la critica a Yalta e alle limitazioni di sovranità in Occidente. Disse Berlinguer in quell’occasione: “Il sistema occidentale offre meno vincoli. Però stia attento. Di là, a Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo nel perseguire una via che non piace né di qua né di là”. Da cui l’affinità profonda con Mitterand, Palme e Willy Brandt che aprirà la strada dell’Internazionale socialista al Pds a dispetto del “Santo” (Bettino Craxi) che, fino all’ultimo minuto, cercò invano di opporre il suo veto.
A ben vedere, è questo il nocciolo della successiva svolta e dello stesso libro di Telese, che, non a caso, dedica le sue pagine più emozionanti a un intermezzo soltanto apparente, l’esperienza cilena di Salvador Allende. In realtà aveva fatto quasi (diamo ad Achille quello che è di Achille) tutto Berlinguer. La svolta successiva è stata possibile soltanto perché Berlinguer aveva rotto con Mosca restando fedele a un’Europa federativa e a una critica al bipolarismo tuttora attuale. Consolidando l’orientamento democratico del Pci, che per ragioni di strumentalità politica continuerà a essere disconosciuto, egli si era misurato con le responsabilità istituzionali di un grande partito occidentale, senza cedere un’unghia riguardo alla sua rappresentanza di coloro che successivamente verranno chiamati, e non soltanto da Fassino, sfigati. È con la critica postuma a Berlinguer che si spegne l’afflato riformatore della svolta e che inizia quello che Pintor prematuramente, con una profezia che i militanti del No hanno contribuito a far adempiere, ha definito la deriva di destra della svolta. Disse Luciano Lama, assolutamente immune da ogni tentazione di difesa identitaria del passato, ma da buon sindacalista attento al merito delle politiche: “Occhetto è una vittima dei giovani dorotei comunisti, quelli che danno poca importanza ai contenuti, e che invece pensano soltanto al potere”. Lama aveva capito tutto perché il potere italiano così com’è (e di cui Berlusconi costituisce l’estremizzazione in chiave grottesca) non consente riformismi, mai indolori se genuini, modernizzazione, civiltà giuridica e democratica, laicità dello stato, integrazione autentica con quella parte della diaspora cattolica che si ispira a questi obiettivi e che dorotea non è mai stata. Ed è soltanto attraverso un ritorno al Berlinguer che ha costruito i presupposti della svolta che si può ricomporre un’unità a sinistra senza la quale non soltanto in Italia ma in Europa si continua a indietreggiare, senza riuscire a parlare alla cittadinanza nel suo insieme. Anche Obama, per riuscirvi, ha dovuto riunificare forze politiche e sociali disperse o divise, sconfiggendo la riproposizione del liberalismo clintoniano in un quadro economico e sociale drasticamente mutato. Chi in Italia si compiace per l’arretramento delle socialdemocrazie non si accorge, o finge di non accorgersi, che, in Francia come in Germania e in Svezia, le forze dell’alternativa continuano a resistere ma sono spaccate, con il coagularsi di forze elettorali altrettanto cospicue quanto la sinistra tradizionale (Cohn-Bendit, Linke, verdi e sinistra scandinava). Come hanno compreso Martine Aubry, Steinmeier e Mona Sahlin, la sfida a coloro che ancora difendono i privilegi della stagione precedente, conclusasi con il crollo di Wall Street, si può soltanto vincere a condizione di ritrovare un’unità di valori e di programmi fondata sulla solidarietà sociale. Ciò vale anche per l’Italia.
Come ovvio, queste considerazioni conclusive sono del recensore più che dell’autore, anche se è la lettura della rivisitazione di quella svolta a suggerirle. È altrettanto ovvio che il libro in questione contiene qualche errore e lacuna, anche rilevante. Un esame più attento del rapporto stabilito dagli eredi della tradizione comunista, non soltanto tra loro ma con il potere costituito, istituzionale ed economico, spiegherebbe molte delle vicissitudini che tuttora ci affliggono. In un libro che vuole parlare al presente, in gran parte riuscendoci, come ho cercato di dimostrare, manca ogni riferimento all’esperienza di governo e di opposizione successiva alla svolta, con l’affossamento autoinflitto di ben due governi di centrosinistra guidati da Romano Prodi. L’autore afferma che: “Solo nella sinistra italiana un partito può cambiare per ben quattro volte il nome, conservando di fatto – con l’unica esclusione dei deceduti – lo stesso gruppo dirigente di vent’anni prima. In tutta l’Europa i leader che perdono, anche quando sono carismatici ed amati come Lionel Jospin, vengono rispediti a casa”.
Forse la risposta all’interrogativo implicito in questa doverosa constatazione potrebbe essere favorita dalla risposta ad altri interrogativi più specifici, direttamente attinenti all’indagine aperta da Telese. Perché, ad esempio, Vittorio Foa ha sentito il bisogno di porre la questione del silenzio dei comunisti? Perché Norberto Bobbio, a sua volta, si è schierato con altri simpatizzanti e militanti interni (Bruno Trentin) ed esterni nel tentativo di evitare le scissioni a sinistra (forse se Telese non avesse affrontato la questione degli esterni con il solo Paolo Flores d’Arcais avrebbe trovato qualche ulteriore elemento di giudizio)? Perché gli editoriali non proprio disinteressati del “Corriere della Sera” hanno avuto un’influenza così pervasiva su troppi aspiranti dorotei tra gli ex quarantenni? Perché, infine, l’ovvio approdo socialdemocratico è risultato così tortuoso e contrastato? Basta la sincerità di Livia Turco: “Non avrei potuto accettare di abbandonare il comunismo per (…) così poco”? O esisteva forse un problema di laicità, tuttora irrisolto? Insomma, la ricerca continua.
Gian Giacomo Migone, L’Indice
Rispondi