Luca Telese

Il sito web ufficiale del giornalista Luca Telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Il buono, il brutto e il cattivo

Il giorno in cui si diffuse la notizia che Dario Franceschini, con una delle sue tante operazioni-immagine si era messo a servire ai tavoli di un ristorante alla festa nazionale di Genova, Pierluigi Bersani era a Modena. Il segretario della federazione, sostenitore dell’ex ministro, si concesse una di quelle meravigliose battutacce che solo un militante emiliano può fare: “Sono contento per lui. Ma di gente che serve ai tavoli ne abbiamo tanta. Il problema del Pd oggi, è che noi abbiamo bisogno di un nuovo leader, non di un altro cameriere”. Ecco, parlando con Manolo Fucecchi per l’illustrazione di questa pagina sul Pd, ci è subito venuto in mente l’epico “triello” magicamente raccontato da Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo. Ma perché il “triello” sia epico e non grottesco, perché abbia un senso e non sia una semplice conta, bisognerebbe prima rispondere a questa provocazione tanto politicamente scorretta quanto folgorante. Spogliata della sua verve caustica, la stoccata sul cameriere cesella la domanda a cui oggi dovrebbero rispondere i delegati della Convenzione che, con la ratifica delle tre candidature (Bersani, Franceschini e Ignazio Marino) aprirà di fatto le primarie. E’ la vera domanda di questo congresso, quella su cui dovrebbero misurarsi tre leader che oggi parleranno sul palco, a partire da quello che è arrivato primo ai blocchi di partenza (e cioè Bersani). Che cosa deve esprimere il segretario del partito, per diventare un leader, e non un reggente, per non essere un cameriere? Perché fino ad oggi né Franceschini né il suo predecessore, Walter Veltroni sono riusciti a farlo? Perché l’opposizione del partito non lascia il segno? Il percorso seguito fino ad oggi dal Pd, a dire il vero, non aiuta chi vuole assolvere questo compito, e le sorprendenti interviste agli opinion leader di area che Beatrice Borromeo e Paola Zanca hanno sentito in questi giorni (le trovate qui a fianco) ci regalano una radiografia sorprendentemente autentica, ci dicono quanto questo compito sia difficile. Molti degli interpellati (gente che legge tre giornali, non ragazzetti lobotomizzati dai reality)  non sapevano nemmeno che ci fosse una assise del Pd; molti sono sfiduciati chiunque vinca; altri pensano addirittura che il Pd di fatto non esista ancora (anche se sono convinti che dovrebbe avere un ruolo decisivo). Così, se non fossero ipocriti, i tre candidati dovrebbe aprire i loro interventi con una autocritica. Infatti i congressi di sezione hanno certificato che il partito nuovo non c’è, o è diviso in tribù. Che non è legato da un sentimento unitario, che è zavorrato da un tesseramento dopato (che tutti condannano, ma a cui quasi tutti ricorrono). Che le primarie non sono state colte come occasione per immergersi nella realtà italiana, ma sono diventate un motivo per allontanarsene. L’immagine più clamorosa di questa scissione ce l’ha regalata il voto sullo scudo fiscale. Mentre i leader del Pd si combattevano negli apparati, alla Camera (lo abbiamo raccontato) le assenze del gruppo favorivano il governo. Frugando nel bollettino di guerra di un partito-infermeria, si scopriva che qualcuno degli assenti giustificati era in conferenza stampa, e qualcuno persino in un altro continente. Casi personali? Forse. Ma rivelatori di un clima collettivo sfilacciato.

Quello che dovrebbe diventare chiaro è che la crisi del Pd non è più un problema contingente, ma strategico. Perso dietro all’araba fenice della cosiddetta “vocazione maggioritaria” (un slogan in politichese di cui nessuno fuori dalla sede del Pd è in grado di spiegare il significato), il partito non riesce a dare credibilità alla sua opposizione. E nemmeno a ricostruire una coalizione senza cui è impossibile vincere. Perso dietro all’enunciazione di una ipotetica cultura di governo, dominato dall’assillo di esprimere questa fantomatica cultura, chiuso in se, il Pd si è dimenticato una virtù in cui la sinistra era maestra: ovvero, come si fa l’opposizione. Così si è arrivati al paradosso che la principale opposizione al centrodestra – sui singoli temi – la fanno componenti minoritarie, ma agguerritissime, dello stesso centrodestra. Esempi? Quando i giornali (non i politici!) aprono la questione dei medici-spia che secondo i leghisti dovrebbero denunciare i clandestini, chi raccogliere le firme di 101 parlamentari contro il provedimento, di fatto silurandolo? Risposta: la pasionaria Alessandra Mussolini. Quando si discutono le deliranti norme antimagistrati e liberticide sulle intercettazioni, chi si oppone con maggiore incisività? Risposta: l’onorevole Giulia Buongiorno, ottima deputata finiana. Chi impugna il provvedimento dei magistrati su Eluana Englaro (ovviamente da destra)? Risposta Il governo (il Pd incredibilmente si astiene). Chi organizza insieme ai registi di centrosinistra la manifestazione contro i tagli al fondo unico per lo spettacolo, fino a diventarne uno dei protagonisti?  Risposta: Luca Barbareschi. Viceversa, se tutto il centrodestra attacca i programmi considerati “di sinistra” minacciando la libertà di informazione, se il direttore del Tg1 insulta coloro che manifestano per difendere questa libertà, “il presidente di garanzia” della Rai (scelto dal Pd) riesce a dire che quel direttore è “irrituale” (minchia). Se i ministri dicono che Annovero va chiuso, nessuno dei tre candidati alla leadership del Pd organizza manifestazioni per contrastarli. So bene che anche molti deputati del Pd contribuiscono attivamente a queste battaglie. Ma la nota dominante, l’acuto, non è mai espresso né da un leader, né da un parlamentare di opposizione. Presi a inseguire l’araba fenice del governo che ci dovrebbe essere (ma che per ora non c’è) i leader del Pd si dimenticano l’opposizione che sono tenuti a fare.

Fuori dal parlamento le cose non vanno meglio: nell’estate della solitudine operaia, nessun candidato alla segreteria ritiene di dover interrompere le proprie vacanze per  andare a sostenere gli operai che salgono sui tetti e sulle gru. Viceversa il ministro Bossi trova il tempo di andarsi a commuovere davanti agli operai del nord in sciopero. Demagogico? Contradditorio? Forse. Però lui c’era.  Nell’estate in cui la Lega lancia la sua offensiva di secessionismo culturale (sui dialetti, sulle piccole patrie, sull’inno, sul tricolore, sulle fiction) i leader del Pd sono assenti, incapace di catalizzare immagini-simbolo. Perché?

 Quella di oggi è formalmente di una assemblea congressuale. Ma in realtà è poco più che un rito, il volo di calabrone di una assemblea che muore nello stesso giorno in cui nasce, e che non ha poteri formali. Nel percorso delineato dagli estensori di quello che su Il Fatto Wanda Marra ha giustamente definito “lo statuto più pazzo del giorno”, l’appuntamento più importante è il 25 ottobre. In quella sede gli elettori e i simpatizzanti conteranno più degli iscritti. E’ giusto? Gli estensori di questo Statuto, a partire da Stefano Ceccanti ci assicurano di sì. Massimo D’Alema lo definisce “un percorso demenziale”. Di sicuro è  il contrario del sistema americano. E certamente è un congegno che po’ produrre una paradossale “diarchia”: Pierluigi Bersani  ha stravinto fra gli iscritti ma potrebbe essere sconfitto nelle primarie. Ignazio Marino (a prescindere da quanto prenderà) in tutti gli scenari in cui il vincitore prenda anche un solo punto in meno del 50%, deciderà chi è il nuovo leader. E giusto questo? Forse. Ma il rischio più grosso è che l’assemblea del calabrone partorisca una nuova conflittualità in cui tutti si proclamino vincitori, e ancora una volta, non nascano né una leadership, né una nuova opposizione. Il giorno della manifestazione ho scambiato due parole con Dario Franceschini. E’ convinto che alle primarie ribalterà il voto degli iscritti: “Vedrai…”. Ma sarebbe un bene? Ieri discutevo con Ugo Sposetti, l’uomo che ha in tasca la chiave del forziere delle fondazioni della ex Quercia: “Pierluigi vincerà con un margine ancora più alto, vedrai…”.   Pochi giorni prima Ignazio Marino mi diceva: “La mia sfida inizia adesso. Vedrai…”. In questi proclami di vittoria (legittimissimi), ancora una volta c’è una pericolosa radice di autoreferenzialità. Esempio: il centrodestra è per le centrali nucleari. E il Pd? Vai a vedere le mozioni, e scopri che Franceschini è contro “Il nucleare di vecchia generazione” (e quello nuovo?). E che quella di Bersani (sorprendentemente) nemmeno si pronuncia sulla materia (Marino è chiaramente per il No). Il dibattito si allontana dalle questioni di merito, ad avvitarsi su se stesso. E vista la difficoltà di vincere con una proposta chiara, risorgono le antiche sirene dell’inciucio: “Tranquilli – ti dicono nell’orecchio gli  uomini degli staff – alla fine Marini troverà una mediazione” (quella sì, una catastrofe). Ecco, il problema del Pd, ancora una volta è questo: combattuto fra gli estremi inconciliabili della rissa e dell’inciucio, non riesce a produrre una sana cultura del conflitto. Eppure è stato proprio il conflitto a scolpire nelle primarie dei democratici americani il profilo riformista di Baraci Obama, il programma di riforma sanitaria, la revisione delle politiche sull’Iraq. Se i triellanti vogliono dare un senso a questo “triello” oggi dovranno calarlo nella realtà. E recuperare una cultura di opposizione, senza cui non può esistere nessuna cultura di governo. Solo chi capisce questo potrà diventare un vero leader, e non l’ennesimo cameriere impallinato dalle risse fra correnti.


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