Il primo giornale che quando lo sfogli tintinna sarà in edicola mercoledì. Il tintinnare, naturalmente, è quello dei danari incassati con gli abbonamenti nei mesi densi di preparazione del Fatto. Gli abbonati percepiti sono ventisettemila, di cui circa tremila hanno prenotato ma non hanno pagato, oppure hanno pagato due volte, oppure hanno cliccato per errore sul blog dell’Antefatto, l’apripista internet della versione cartacea. Abbastanza per andare avanti un anno o giù di lì, senza contare i ricavi quotidiani (1,20 euro a copia). Sciolta la riunione in tarda mattinata, la “sporca dozzina” (definizione di Carlo Freccero) sotto l’egida di Antonio Padellaro dà un’occhiata rituale allo schermo che riporta il numero degli abbonati: sono saliti? Sì. E via di pacche sulle spalle. Si è detto e si dirà che è facile mettere insieme Marco Travaglio, Peter Gomez, il magistrato Bruno Tinti e tutti gli altri, beatificare sulla montagna gli assetati di giustizia (Mt 5,6) e impartire quella lezione di giornalismo militante che un pezzo d’Italia vuole sentirsi fare, e par la quale lo stesso pezzo d’Italia è pronta a pagare preventivamente. Ma se mercoledì prossimo, il grande giorno, gli abbonati fossero anche solo venticinquemila l’operazione editoriale sarebbe stata tutto tranne che facile, e questo è un fatto. Poi si vedrà.
Intanto la sporca dozzina si riunisce nella redazione in via Orazio, nel labirinto del quartiere Prati, in un ex call center che sa di nuovo, per fare numeri zero che il direttore scruta sulla scrivania con una soddisfazione che indulge sui refusi in prima pagina e sull’iconografia ancora claudicante. Vale il discorso delle grandi squadre in precampionato: le gambe sono pesanti, il guizzo arriverà presto. Il titolo della testata, ufficialmente il Fatto Quotidiano, campeggia in rosso su due righe, corredata da un omino stilizzato che urla nel megafono verità che metteranno a disagio la stampa non libera del paese. In sedici pagine il Fatto cerca di dare una copertura totale, dalla politica allo sport fino ai programmi televisivi, “ma senza l’oroscopo e le previsioni del tempo”, sentenzia duro Padellaro. Le prime otto pagine sono dedicate all’attualità, la seconda parte (che va sotto il titoletto “secondo tempo”) ospita la cultura, gli spettacoli, lo sport e il resto. Nella doppia pagina al centro va il servizio di copertina, in uno stile che si adatta bene ai redattori che vengono da settimanali.
Ovunque piccoli corsivi non firmati, cose caustiche che si alternano alle non meno caustiche firme dichiarate (e sottolineate, che fa british) e alla rubrica delle lettere, a cui risponde Furio Colombo. Lo stesso che in questi giorni fa capolino a sua discrezione nelle riunioni per lanciare pillole di giornalismo. Un giornale di notizie e di idee, dunque, ma che il direttore si cura di smarcare dall’etichetta di rifugio forcaiolo per nostalgici del 1992: “Guarderemo ciò che succede e in base a questo faremo il giornale”. Ma fra le facce soddisfatte si aggira un’ossessione: Antonio Di Pietro, il candidato naturale a cingere il Fatto con un abbraccio talmente stretto da farlo soffocare. Stando ai racconti, in via Orazio nessuno è dipietrista. Non lo è Padellaro, per cui “se avessimo fatto il giornale di Di Pietro avremmo chiesto i finanziamenti al partito di Di Pietro”; non lo sono gli altri, che parlano della libertà d’informazione con una carica ideale che farebbe felice Marshall McLuhan. L’aria poi si è fatta pesante quando al forum organizzato dal nuovo giornale si sono presentati i magistrati antimafia Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato, della cui amicizia Marco Travaglio si vanta, con conseguente scazzottata con il Giornale: e dire che i due “si sono fermati in redazione solo dieci minuti”, chiude Padellaro.
Se il Fatto si propone non di seguire quanto, semmai, di dettare l’agenda giustizialista dell’Italia dei Valori, l’altra parte in causa non risparmia effusioni. Al Foglio Di Pietro conferma di essersi già abbonato al Fatto (“Lo leggerò tutte le mattine, prima degli altri giornali”) e si aspetta da Travaglio e soci un grosso contributo nella battaglia per la libertà di stampa: “Soprattutto perché – ricorda Di Pietro – è l’espressione di un editore puro, una cosa praticamente inedita in Italia”. La costituzione della “Editoriale Il Fatto spa” è in effetti una formula innovativa: la proprietà del giornale è nelle mani di alcuni azionisti, fra cui l’editore di Chiare Lettere, Lorenzo Fazio, Padellaro, Travaglio, Tinti e una manciata di investitori minori. Con la specifica, raccontata qualche giorno fa da Libero, dei titoli privilegiati che appesantiscono le tasche dei soli Travaglio e Tinti. Al capitale vanno aggiunti i tintinnanti abbonamenti che continuano a piovere sullo schermo di refresh.
“Il sessanta per cento degli abbonati ha scelto la versione in pdf, segno che i nostri lettori sono giovani”, dice Padellaro. Segno anche che non dispiacciono i 120 euro di risparmio rispetto all’abbonamento cartaceo (100 contro 220 per chi si abbona entro il 22 settembre). L’entusiasmo comunque c’è: alcuni abbonati incalzano i redattori nell’androne del palazzo: “Perché non mi è arrivato nulla?”; “Perché non siamo ancora usciti”. Un lettore preventivo ha fatto recapitare un Pelizza da Volpedo rielaborato, con il quarto stato che regge una copia del Fatto. Questo per quanto riguarda l’arredo di scena. Poi ci sono gli attori, quel misto ben assortito di giovani promesse e venerati maestri. Luca Telese si occupa dell’orbita politica. I puristi del genere non hanno gradito il suo passaggio dal Giornale alla corte di Padellaro e Travaglio e lo considerano ormai macchiato dall’indelebile impurità di essere stato a libro paga del Cav. Se per Padellaro “l’antiberlusconismo non è l’idea su cui si fonda il giornale”, non si può dire altrettanto dei lettori, o almeno dell’ala oltranzista che commenta i blog in modo compulsivo. Difficile che i detrattori siano moderati riformisti come Enrico Mentana o Sabrina Ferilli, che pure sono fra gli abbonati.
Telese sorride: “Questo è il bello: è l’unico giornale in cui la gente protesta prima ancora che sia uscito”. Seguono compatti Peter Gomez e Marco Lillo, che si occuperanno di inchieste, inchieste e ancora inchieste. L’ultima fra le firme soffiate ai concorrenti è Barbara Spinelli. Coordina la pagina degli esteri Stefano Citati, che cercherà idee originali per completare un giornale italocentrico per vocazione. All’economia ci sono Stefano Feltri a Roma e Francesco Bonazzi a Milano. Oltre alle tante facce sorridenti dei fuoriusciti dall’Unità di Concita De Gregorio, la prima ad avere il sonno disturbato da Padellaro e Travaglio. In fondo a sinistra (nel senso che è seduta in fondo a sinistra) c’è la praticante Beatrice Borromeo che ha lasciato in Rai il profilo fatale per la versione “vesto casual e faccio inchieste tutte mie”. Il primo intervento sul blog, un pezzo sull’uso stravagante dei fondi europei in Basilicata, ha ricevuto 122 commenti che vanno dall’ovvio al banale: sarà in grado, non sarà in grado, è raccomandata, è brava, non sa nulla, sa tutto e via così. Curioso per un blog che quando clicchi tintinna, che i commenti siano censurati. Poco dopo la pubblicazione dell’articolo il primo commento iniziava con “benvenuta Beatrice”, il secondo con “benvenuta un cazzo”. Quest’ultimo è sparito poco dopo, con ficcante dibattito sui limiti della censura che avrebbe riportato Marshall McLuhan all’ordinaria tristezza.
In realtà, Beatrice sta lavorando ai fianchi la professione e in redazione qualcuno dice che è “un po’ abbandonata a se stessa”, naturalmente nel senso nobile, quello di Buzzati. Mercoledì, in un tintinnare di edicole, tutto sarà svelato. Si vedrà in azione il giornale che, recita la presentazione, “darà le notizie, le analisi e i commenti che gli altri non danno, o nascondono. Parlerà dei temi che gli altri ignorano”. Si vedrà finalmente su carta un centone di notizie fresche e verità scomode. Il primo editoriale di Padellaro? Un affondo su un tema di strettissima attualità: la Costituzione italiana.
© 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO
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