Poi, all’improvviso, quando stiamo discutendo di tutt’altro, di America, Obama, giornali, di scelte che hanno cambiato la sua vita e del suo ultimo libro, Mario Calabresi, seguendo il filo delle associazioni logiche, riavvolge la bobina del suo ragionamento fino al nodo stretto di un ricordo antico. È un’immagine, un’emozione, una storia che apparentemente non c’entra con quello di cui stiamo parlando. È un’istantanea. Lui da piccolo, in costume da bagno, sulle punte. «Da bambino avevo una vera passione per i tuffi. Ma anche una strizza inenarrabile. Volevo buttarmi in mare da otto metri, ma poi, sullo scoglio più alto, potevo restare immobile anche per dieci minuti, inchiodato dalla paura…». E come andava a finire? Il direttore de La Stampa sorride e aggrotta le sopracciglia: «Tu stai lì, e ti convinci che è stata una vera follia… poi arriva un solo fugace, improvviso, felice istante di irresponsabilità. Un paio di secondi in cui tutto diventa possibile e… splash, ti ritrovi in acqua. Ecco, la storia della mia vita è la collezione di una manciata di secondi di fortunata irresponsabilità che mi hanno permesso di tuffarmi quando sembrava impossibile».
Conosco Mario da dieci anni, quando ci siamo incontrati, da cronisti politici, a Montecitorio. Nel 1999, Mastella, alleato di Cossiga nell’Udr, disse: «Il presidente emerito è come un attaccapanni a cui appendo il mio cappello». Il giovane Calabresi si piazzò sotto casa Cossiga, convinto che ci sarebbe stata una reazione. Aveva visto giusto. A sera, dettò un lancio con le parole del picconatore: «L’Udr non esiste più». Era uno scoop enorme, il governo D’Alema poteva cadere. Solo un anno più tardi, sulla prima pagina de La Repubblica (era stato appena assunto), i lettori trovarono questa intervista a Berlusconi: «Ho avuto un tumore, e l’ho combattuto». Era di nuovo Mario a firmare. Calabresi ha un altro dono, oltre a quello di attendere il tempo che serve per tuffarsi. È carismatico, ironico, a tratti persino seduttivo. Mario è sposato con Caterina Ginzburg, nipote di Natalia. Ha 39, è padre di due gemelle di due anni e mezzo. È il direttore di quotidiano più giovane d’Italia, ha scritto due libri importanti. Uno, Spingendo la notte più in là, su come superare il lutto degli anni di piombo e sulla storia di suo padre Luigi (commissario, ucciso da un commando di Lotta Continua). L’altro, appena uscito, si intitola La fortuna non esiste e racconta dodici storie americane di persone che, toccato il fondo, sono risorte.
Perché questo titolo?
«La mia biografia è segnata dall’idea che si può riuscire a sopravvivere alle tragedie più grandi».
L’ottimismo della volontà di Gramsci?
«È un riflesso ancora più istintivo. Mi rendo conto che, per quello che ho passato, mi affascinano le storie di chi combatte contro l’apparente spietatezza del suo destino. L’elicotterista colpita da un razzo, senza le gambe, che ricomincia a vivere contando i secondi di vita uno a uno…».
…la bibliotecaria di Braddock che ricostruisce tessuto sociale e vita nella ghost town spopolata dalla crisi…
«Il ragazzino analfabeta e poliomielitico afgano che a tredici anni si diploma, si laurea, impara le lingue e diventa analista internazionale…».
La fortuna non esiste perché tutti col loro coraggio possono tornare a vivere?
«Sì. Un libro è anche un fatto intimo, privato. Mi accorgo che La fortuna non esiste e Spingendo la notte più in là sono declinazioni di una stessa convinzione che ho: nel primo libro, sulla mia vita; nel secondo, su quelle degli altri».
Ricordi l’ultima volta che ti sei tuffato da uno strapiombo?
«Quando c’è stato il bellissimo incontro tra la signora Pinelli e mia madre, al Quirinale».
Che rischio c’era?
«Che il rancore mi paralizzasse. Perché il lutto e le ferite ti rendono vulnerabile tutta la vita… Se io, la sera prima, avessi ceduto alla tentazione di leggere il libro con l’intervista di Licia Pinelli, La piuma e la montagna, forse avrei potuto essere sfiorato dalla rabbia».
Invece?
«Sia noi che lei abbiamo accettato di metterci in gioco ed è stato un incontro toccante e bellissimo».
In quanto si supera la rabbia?
«Tutta la vita».
Quando eri al liceo ti ritrovasti a una festa in cui si diceva che tua madre aveva tratto vantaggio dalla morte di tuo padre…
«Il rancore fu fortissimo».
Un’altra volta che ti sei tuffato, in un altro mare.
«Avevo lasciato La Repubblica. Ero diventato capo della redazione romana de La Stampa. Ezio Mauro mi fece una nuova proposta: “Torna”. Volevo rifiutare. Era un altro terremoto, troppo presto, non volevo rischiare un nuovo cambio».
E cosa ti convinse?
«Chi, piuttosto. Il mio collega Pigi Battista: davanti a un caffè, mi disse, fra l’altro: “Mario, certi treni passano una sola volta nella vita. Salici sopra e non rompere i coglioni”».
La concretezza di Pigi. E tu?
«Non dissi nulla. Ma aveva ragione. Salii su quel treno. E anche quella volta…». (Fa una pausa).
Cosa?
«Mi era tornata un’altra immagine-chiave della mia vita. La prima volta che credo di aver “perso un treno”».
E quando è stato?
«A una manifestazione per la pace, nel 1982».
È vero che in quell’occasione Tonino Milite, artista grafico e poeta, reinventò la bandiera arcobaleno solo per te?
«L’aneddoto che sto per ricordare è legato proprio a quello. Quando mia madre si è sposata con Tonino, come ho scritto in Spingendo la notte più in là… la nostra vita è ricominciata. Tonino è l’uomo del buon umore, della speranza».
Lui ha raccontato che quel giorno ti voleva in piazza, alla manifestazione per la pace, ma non voleva che fossi sotto simboli di parte, per rispettare la tua storia… Quando te l’ha detto?
«Me lo disse allora! Malgrado lui fosse del Pci, mi ripeteva: “Dove ci sono solo bandiere di partito non ti ci voglio portare”».
La cosa geniale è che ne immaginò una solo per te.
«Ci lavorò moltissimo. I colori dell’arcobaleno, ripresi da quella di Aldo Capitini. La forma trapezoidale, perché il rettangolo delle altre è quello che chiude i confini degli stati-nazione, e invece questa doveva essere universale…».
Risultato?
«Si arriva al giorno di cui ti parlavo. Centomila bandiere rosse e una sola arcobaleno La nostra. Ma ne eravamo orgogliosissimi. Ci trovavamo nelle prime file, davanti al palco dove avrebbe dovuto parlare Berlinguer. E allora papà mi disse: “Mario! Regaliamogli la nostra bandiera della pace… Io ti prendo in braccio, e tu gliela dai”».
Una grande idea, sarebbe diventata una foto simbolo: la bandiera di tutti nelle mani del leader…
«Tonino mi sollevò, Berlinguer era vicinissimo a me, mi guarda e…».
Cosa succede?
«Niente! Mi manca il coraggio, mi vergogno. Non allungo la mano, perdo l’attimo».
Avevi undici anni!
«Ma io ci rimasi malissimo. Non mi ero tuffato. Ogni volta che devo vincere una paura, mi viene in mente quell’occasione persa, la mia prima grande occasione sprecata. Te ne racconto un’altra. Primarie americane. Hillary sorpassata da Obama. Sto aspettando Clinton. Quando finalmente esce, mi chiedo: “Adesso che faccio? Lo vado a provocare sulla sconfitta di sua moglie? Non posso, ma mi butto. Lui mi risponde: “Hillary è ancora in corsa”, e fu ripresa in tutto il mondo».
Bravura.
«No, anche culo. Però non puoi averla, la fortuna, se non ci credi».
Come i personaggi del tuo libro.
«Ero partito da un’idea: non puoi andare in un paese e, dopo un anno, scriverci sopra un libro».
Ma l’hai fatto.
«Aspetta… Avevo tutti i miei taccuini Moleskine con cui seguivo le primarie. Uno per Hillary con l’autografo di Hillary, uno su Obama, con l’autografo di Obama, gli adesivi, i biglietti, le storie dei personaggi incontrati nel viaggio».
Quei bei taccuini in pelle…
«Che si aprono in verticale, sì, da cronisti di nera».
Un lusso.
«Una volta, alla Casa Bianca, ne dimentico uno. Me lo riportò un collega americano. E io: “Come hai fatto a capire che era mio?”».
E lui?
«Si fece una grande risata e disse: “Solo un italiano può usare un taccuino che costa più di quanto gli viene pagato il pezzo”».
Tutte le tue storie, in realtà, sono ¬ anche ¬ un meta-romanzo su Obama e sulla sua America.
«Questo sì. In quei Moleskine c’erano tante storie che non riuscivo a scrivere sul giornale e che era un peccato perdere. Anche perché erano tutte legate da questo filo unitario, la seconda chance… La chiave di lettura della nuova America che voleva uscire dalla crisi erano le storie di quelli che erano caduti, e ora riuscivano a rialzarsi».
La bibliotecaria che aspetta Obama, il giovane afgano che entra in contatto con lui via internet…
«Barack è riuscito a catalizzare tutte queste speranze».
Quando lo hai seguito la prima volta?
«Ah!… Io c’ero il giorno in cui è partito. Springfield, febbraio 2007, 15 gradi sotto zero».
Ricordi la temperatura?
«Obama è l’uomo dei simboli. Voleva iniziare dalla città da cui era partito Lincoln, di fronte al Campidoglio. Non voleva farsi vedere dalla gente del midwest con sciarpa e cappello… Così era in giacca e cravatta! Ho avuto freddo per lui».
Quando hai capito che avrebbe vinto?
«Un anno dopo, nel febbraio 2007. Hillary aveva vinto le primarie nel New Hampshire».
E cosa è successo?
«Obama era andato comunque molto forte. All’aeroporto vedo un uomo, che trascina un sacco di libri e giornali, con decine di persone che gli chiedono l’autografo».
Chi è?
«Ted Kennedy. Senza scorta, solo. Gli chiedo un commento. E lui dice qualcosa del tipo: “Ieri sera non ho vinto la mia scommessa”. Ci resto di sasso. Tifava Obama. Ed era un uomo establishment dei Democrat! Ma non è finita. In aereo, mi trovo a fianco un vecchio. C’è nel libro. Mi dice: “Sono nato repubblicano, ho vissuto da repubblicano, morirò repubblicano, il mio mito è Reagan».
Votava per McCain?
«No! Questo era l’incredibile. Il vecchietto diceva: “Però per rimettere a posto questo Paese ci vuole quel ragazzo nero, e io voterò per lui. Lo faccio per i miei nipoti”. Se un orgoglioso repubblicano reaganiano e l’erede dei Kennedy simpatizzano per la stessa persona, penso, Obama vincerà».
Prima di queste storie americane nel libro ce n’è una italiana. Che poi è la storia di tua nonna Maria Tessa.
«La prima resurrezione del mio album di famiglia. La nonna nacque prematura, in casa, e fu considerata morta. Ma un vicino di casa testardo, il dottor Buscaglino, prese il corpicino e lo tenne nella sua cucina in casa, con la stufa accesa. Nonna tornò a casa. Gracile ma viva».
Come hai saputo della nomina a direttore de La Stampa?
«Da Dagospia».
Non ci credo.
«Invece è vero. Quando John Elkann era venuto in America, un paio di volte, ci eravamo incontrati a colazione. Si parlava di giornali, della stampa americana: John è un appassionato. Uno che comincia una conversazione dicendo: “Il giornale di Buffalo ha un ottimo equilibrio fra cartaceo e web, che ti pare?”».
Stava cercando un direttore, e l’hai capito subito.
«Mi avrebbe fatto piacere. Ma non avevo nessuna certezza, eravamo solo due trentenni che discutevano di giornali, America, Obama. Poi, dopo Dagospia, mi ha chiamato».
È vero che hai seguito Obama ovunque?
«Una volta stavo addirittura per restarci secco. A Evansville, durante un discorso meraviglioso, ho iniziato a sentire fitte terribili allo stomaco…».
Hai trovato un medico?
«Non conosci Evansville! America profonda, cappelli da cowboy. Al massimo, un veterinario».
E come hai fatto?
«In Italia erano le quattro di notte. Allora ho chiamato mia nonna. Lei, novantenne, con accento e buonsenso piemontese mi fa: “Per caso senti come qualcosa che ti morde?”. E io: “Sì nonna”. E lei: “Chiama subito un medico perché è appendicite!”. Me lo trova lei: una nostra zia. Che, al telefono, mi fa fare alcuni piegamenti e dice: “Non sei svenuto, vuol dire che non sei ancora in peritonite. Prendi subito un aereo per New York e corri in ospedale”».
Che sogni hai per La Stampa?
«Meno chiacchiere. Meno politichese. Un giornale in cui uno trova tre storie e pensa: toh, questo è accaduta anche a me…».
E come si fa?
(Ride). «Non lo so. Inizio tutte le giornate leggendo tutte le mail che ricevo e chiudendo il giornale a mezzanotte: direttore¬caporedattore».
E la nonna?
«Ho fatto in tempo a portarle il libro. A leggerle la sua storia. Era malata. A letto, 94 anni. Per tutta la vita ha bevuto un bicchiere di Arneis bianco».
Cosa ti ha detto del capitolo?
«Due cose: “Mario, il nonno sarebbe stato contento!” e “Mario! C’è un errore grave, puoi correggere? Dici che il dottore mi aveva avvolto in una coperta, invece era uno scialle!”. È morta pochi giorni dopo, un altro cerchio che si è chiuso».
Spingendo la notte più in là esce tra poco in America. Ma gli americani non sanno nulla degli anni di piombo.
«Ma il terrorismo è terrorismo ovunque, lo accosteranno al loro».
E cosa dirai a loro?
«Che l’unico modo di guarire dal lutto è smettere di coltivare le ragioni del rancore».
Luca Telese
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