No, non era uno di quei personaggi fuori sesto usciti da una canzone di Francesco De Gregori, un uomo che cammina sui pezzi di vetro, o un matto con il cuore stregato, ma un leader in stato di grazia. Nella notte che lui non dimenticherà mai (e nemmeno noi), Tonino Di Pietro camminava sulle punte dei piedi con un sorriso a sessantaquattro denti e un occhio iniettato di sangue. Non per l’ira, come si dice nei proverbi, ma per la gioia e lo stress della campagna elettorale; un capillare saltato, e – puff – una corona rossa intorno alla pupilla.
E come poteva essere altrimenti? Non era mai successo, nella storia elettorale d’Italia che un partito raddoppiasse i suoi consensi da un’elezione all’altra, dal 4% e rotti all’8%. I sondaggi, un successo di questo tipo, lo annunciavano da tempo, ed era l’unico dato su cui erano unanimi tutti: ma una cosa è giocare con i pronostici, l’altra è poter contare i voti nelle urne. E così Tonino, a vendemmia celebrata, annunciava: «Adesso, come promesso (lo aveva detto proprio a noi, ndr) tolgo il mio nome dal simbolo. Mi apro alla società civile». Era così euforico Tonino, nella nottata elettorale, che camminava leggero, aggirandosi tra i tavolini nella terrazza dell’Hotel Majestic, a via Veneto, come se quella non fosse la sede del suo comitato elettorale, ma un luogo di soggiorno e di vacanza. Nulla sembra turbarlo. La mattina dopo, nel giorno dello scrutinio, arriva la notizia che in alcune circoscrizioni Luigi De Magistris ha preso più preferenze di lui? Altri leader forse si roderebbero il fegato, lui risponde serafico, ma sempre con la nota concitatio del dipietrese: «Ma se sono proprio io il primo c’ha fatto la croce sopra! Vuol dire che la candidatura era azzeccata!». Intende dire che è stato il primo a votarlo, e che se De Magistris raggiunge quel risultato è merito suo.
Questo Di Pietro alla doppia panna, che si aggirava fra gli uomini della sua squadra di candidati come un allenatore negli spogliatoi dopo la vittoria in una finale mondiale, aveva già avuto il tempo di preparare la sua strategia da mesi. Ricambio del sangue al personale politico della sua Italia dei valori fin dalla formazione delle liste (meno dinosauri della prima Repubblica, meno ex Dc ed ex socialisti, dentro più donne e più giovani) con la stessa perizia con cui una infermiera programma una trasfusione. Dentro l’ex operaio di Rifondazione Zipponi, dentro la hostess battagliera Maruska Piredda, lo storico del Pci Nicola Tranfaglia: come in un piccolo bonsai di Pd, costruito per contendere il primato.
Il giorno dopo lo scrutinio, ieri, nella conferenza stampa della vittoria era già pronta la carta di una assise che Tonino immagina come una celebrazione mediatica: «A fine mese il nostro esecutivo programmerà il percorso che ci porta dritti al congresso con cui apriamo le porte agli italiani». L’ex pm dice e ripete perentorio: «È finita la fase dell’opposizione, adesso ci candidiamo all’alternativa». Ma cosa vuol dire davvero alternativa? Di Pietro si muove come un cane da tartufo, segue il suo intuito. Intanto ricicla una parola cara a Enrico Berlinguer, una parola che suona più «di sinistra» dell’altra, decisamente girotondina. Poi, ovviamente, il leader dell’Idv sottintende che cercherà di ricorrere a toni più mirati, per attrarre i voti delle liste di sinistra escluse dal batti-quorum. Questo Di Pietro lo teorizza senza perifrasi: «Sentiamo il dovere di farci carico di quella rappresentanza, di un pezzo di Paese, di culture importanti della nostra storia che non hanno trovato posto in Parlamento».
Anche queste parole hanno destato qualche preoccupazione a via del Policlinico (Rifondazione) e via Napoleone III (Sinistra e libertà). Così come ha fatto per i voti sfilati al Pd, infatti, Tonino non ritiene necessari accordi con i gruppi dirigenti, non propone scialuppe, non indica via di salvezza, e lo spiega: «Io non ho nessuna voglia di fare campagna acquisti tra i frammenti del vecchio personale politico: sto costruendo una nuova classe dirigente, parlo agli elettori, non agli stati maggiori senza esercito!».
Il che è musica per le orecchie dei suoi dirigenti, ma veleno per i partiti tagliati fuori dallo sbarramento al 4%. Insomma, Tonino non fa prigionieri. Preferisce lavorare di cesello, scegliersi a una a una le sue prede, «i sommersi e i salvati». In questo modo è passato dal 4% all’8%. Riuscirà a proseguire la sua fase espansiva seguendo lo stesso percorso? Non è detto. Così come non è detto che il pressing sul Pd e il provvisorio scambio di amorevoli di Franceschini («Gli ho telefonato stamattina…», diceva Dario) possa durare a lungo. Di Pietro dice: «Franceschini deve scegliere tra noi e Casini!». Il leader del Pd, molto democristianamente gli risponde che lui è già «alleato con l’Italia dei Valori nell’80% delle amministrazioni in cui si vota. E così i due si aggirano nella gabbia come leoni che si studiano e che si inseguono. Ma Dario si ritrova con il partito scavalcato nelle regioni rosse, in Umbria, e nelle Marche, mentre Tonino può scorrere i dati felice e gridare: «Aumentiamo ovunque, dappertutto, e allo stesso modo… Un successo senza precedenti».
Di Pietro, nella notte in cui cammina sulla terrazza del Majestic senza sfiorare nemmeno terra, nel giorno in cui si abbraccia virilmente con De Magistris, nella sera in cui conta i voti a uno a uno come Paperone i dobloni nel deposito ha solo un dubbio. Finora ha seguito il suo fiuto e gli è andato benissimo. Adesso il salto di qualità gli impone una strategia. E lui quella ancora non ce l’ha.
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