Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Caro Direttore

L’Onnipotente, che lo ha accolto come un Caporedattore, con lo sguardo corrucciato e le gambe immerse in una tinozza di nuvole, ha velocemente dato uno sguardo all’anima che Candido gli stava consegnando, una materia soave e fluida fatta di articoli e di prime pagine di colore rosa-cannavò, che sta al di qua del rosa shocking ma al di là del rosa confetto, e poi ha subito cominciato ad interrogarlo su quel mondo dove i portieri non parano ma volano,  i centravanti non avanzano ma sfondano, i terzini sono le torri,  i mediani ringhiano e dove tutti sono pupi tipizzati, e ogni pupo è un aggettivo, proprio come accade in quell’opera dei pupi  dove Candido era nato e dove sono nato anche io e dove il moro è moro, il cattivo è cattivo e la bella Angelica….
Non voleva dunque sapere come Candido fosse riuscito a trasformare la Gazzetta nel quotidiano più letto d’Italia <e che finalmente – disse Gianni Agnelli – posso leggere non di nascosto>, il giornale con l’happy ending, fatto come il cinema americano. Ma voleva invece capire, il Grande Onnipotente, come Candido era diventato, molti anni prima, il piccolo onnipotente nella terra più plebea e più ingovernabile d’Europa. Non comprendeva come mai l’universo del  tifoso violento ma devoto, la cui preghiera sempre gli arriva come un grido selvaggio, fosse stato per lunghi anni domato. Come mai insomma  <scrivo a Cannavò> fosse stata una soluzione, un progetto di liberazione, un atto di giustizia, un’ illusione e un’ossessione.
Dunque  si sono messi a sfogliare, in un cartella intitolata “Parliamone insieme”, una raccolta di lettere, preziosa come quella dei proverbi di Salomone, e non tanto perché è il romanzo epistorale della città di Candido, che per Dio vale quanto tutte le altre città del mondo,  ma perché è, ancora oggi, il dialogo più intenso, più ingenuo e più sincero che mai ci sia stato tra un giornalista e i suoi lettori. Si ricoverava lì dentro chi non trovava posto in ospedale; c’erano gli edifci costruiti dai geometri, la vergogna dei piani regolatori e degli aeroporti fatti e sfatti come la tela di Penelope, le stoppie arse del turismo, i posteggiatori abusivi e le baracche sul Simeto; e poi la disoccupazione, il traffico mediorientale, la sporcizia delle strade rotte. C’era insomma un mondo che non riesce mai a declassarsi completamente perché solo nello stramazzo fa vedere la sua furiosa vitalità. Ma c’erano anche i brividi della terra in violazione del diritto di gravità, e poi l’aria della notte e il battito del mare.
Per anni Candido rispondeva, lontanissmo dalla sociologia e dalla militanza,  pensando al giornalismo come a una Corte di Giustizia, ma una Corte lieta e innocente, di quelle che pronunziano gravi condanne ma poi cercano l’accomodamento finale, sempre entro i limiti della saggezza, sempre respingendo la rivolta, con un programma pratico e pedagogico di incilivimento. Illusioni, certo. E però un fatto non esisteva se non era Cannavò a raccontarlo.
Così quando morì il professore Mannino, falciato mentra nuotava nel mare di Acitrezza da un motoscafo pirata, sdraiarono per terra il cadavere squarciato, e i bagnanti spaesati non si affidarono a Dio ma a Candido: <Qui ci vuole un articolo>. Una volta gli scrisse un signore che aveva deciso di suicidarsi: <In questa terra assolata e desolata stiamo solo preparando l’arrosto per i vermi che ci mangeranno>. E una volta gli scrissi pure io, che allora, e anche oggi, pensavo di stare dalla parte di chi non se la beve. Nella città dove la donna era considerata come una specie di macchina pericolosa che, toccata in certe parti produce coltellate e fucilate, finsi d’essere una mamma che, rientrando a casa all’improvviso, aveva visto, attraverso la porta socchiusa della propria camera da letto, la giovane figlia coricata con un ragazzo e un’altra ragazza. <Con il cuore in tumulto – scrivevo – ho deciso di scivolar via da quell’orrore,  senza intervenire, senza neppure farmi vedere>. Ebbene, nella città esplose  un dibattito forte, inarrestabile, profondissimo, che coinvolse il vescovo e i partiti, le famiglie e le scuole, gli intellettuali e i circoli privati. Mai avrei immaginato che quella finzione sarebbe risultata più vera della stessa realtà. Solo trent’anni dopo Candido seppe che la lettera era falsa.
Il segreto – ha spiegato Candido all’Onnipotente – sta tutto nell’etica dello sport che  avrebbe potuto persino salvare il meridione dalle tragedie, tappare gli spifferi mafiosi, perché lo sport è la vita vissuta con altre armi. E però, molti anni dopo, barricata contro la ragione, la città di Catania non sopportò la giustizia sportiva che l’aveva sanzionata e non perdonò al direttore catanese di schierasi con la legalità. Candido fu costretto a vivere sotto scorta. Non so se lesse in quella vicenda di barbarie anche la verità della sua emigrazione verso Milano e verso la Gazzetta. Di sicuro non perse mai la fiducia nell’etica dello sport, nella democrazia intesa come gara atletica, nel diritto che ha ciascuno di diventare come quei campoini che hanno scandito i suoi racconti epici e lo hanno fatto diventare una specie di Ludovico Ariosto dello sport.
Si sa che la prosa epica da poema cavalleresco di Candido è sempre contrapposta a quella creativa e raffinata di Gianni Brera che fu il Carlo Emilio Gadda della tipizzazione sportiva, ma probabilmente anche il protoleghista, l’unico grande scrittore che il nativismo padano ha qualche titolo per annettersi. Insomma: hanno un bel rimpicciolire Candido e quel suo essere ingenuamente di sinistra, con il cuore tenero dei vecchi socialisti meridionali! L’Onnipotente, per esempio, lo ha  congedato quando Candido gli ha proposto, come soluzione per quel mondo di dannati, di sostuire i quadri che stanno nel Duomo di Catania, e che nessuno vede perché i quadri in Chiesa, come i sagrestani, sono solo utensili sacri. Voleva metterci le immagini dei campioni dello sport: al posto del martirio di san’Agata Maradona che segna con la mano; e l’arbitro Lo Bello, che intuisce il fallo prima che avviene, al posto di san Giorgio che calpesta l’idolatria; e Cassano invece di Francesco di Paola. E poi Pelé, Ferrari, Cassius Clay… uomini che occupano la spazio della civiltà contemporanea,  rendono normale l’eccezione e spostano il limite senza bisogno di fare patti con il diavolo, proagonisti del romanzo popolare dove tutti possono diventare principi ed entrare nell’aristocrazia dello spirito. Aveva i pensieri che gli ballavano, l’Onnipotente, quando lo ha mandato in Paradiso. Poi ha chiesto informazioni <su questo Gianni Brera>.

Francesco Merlo


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Una risposta a “Caro Direttore”

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