Dire addìo al veltronismo – se quello di Walter sarà davvero un addìo definitivo prima dell’epopea africana che verrà – sarà innanzitutto una tragedia per i cronisti: intere biblioteche di miti recenti e non, agende da buttare a mare. Frammenti di classe dirigente storica o acquisita da ricollocare, nomi da cancellare, o reinventare. Ecco un imperfetto elenco di questo sontuoso Pantheon in movimento. La Walter’s list non può che partire dall’eroico Vincenzo Vita, ex vice-responsabile comunicazione ai tempi del Pci, uno che può vantare di essere tra i pochi veltroniani «antemarcia» (nel senso che era in squadra quando nella casella dei diagrammi di appartenenza c’erano solo Walter e lui): proto-veltroniano, certo. L’altro antemarcia accertato è il nume dell’Auditorium, Gianni Borgna, uno che diventò «veltroniano», dopo aver fatto di Veltroni un «borgnano», nella sua Fgci. Poi ci sono gli strettissimi collaboratori che lo seguiranno, anche nel limbo in cui si è collocato oggi. Gli uomini della squadra ristretta, i nominativi plurali veltroniani: e dunque Walter Verini, braccio destro di sempre (il mitico «veltrini» arruolato un paio di ere geologiche fa, a l’Unità), Roberto Benini (l’ex portavoce in Campidoglio) e Claudio Novelli, il fido ghost writer dalla penna alata e dalle letture azioniste (trasmesse, come per gemmazione, al capo); e poi il portavoce, Luigi Coldagelli, così affettuoso che – secondo la leggenda – per un periodo accettò di lavorare gratis pur di stare vicino a Walter. Fino all’uomo-video Giorgio Tonini, ancora fino ieri ospite prediletto dei talk show per incarnare la linea veltroniana: bulldog buonista, cattolico, padre di un plotone di figli.
Più complicata la rottamazione di Goffredo Bettini, che fu veltroniano «a contratto», e grande burattinaio dei disastrosi esordi organizzativi del nuovo partito, dopo essere stato, in un’altra vita, dalemiano-antiveltroniano (nel Pci prima e nel Pds poi, un piccolo – si fa per dire – Talleyrand capitolino). L’album del veltronismo aveva le sue figurine recenti e pregiate: così si ignorano i destini politici possibili di Marianna Madia, la precaria veltroniana (che però non era precaria, e oggi è deputata), di Massimo Calearo, l’imprenditore strappato al nemico (compresa la suoneria di Forza Italia sul telefonino e gli elogi all’obiezione fiscale), del rampollo di casa, Matteo Colaninno (ministro ombra, ma anche estimatore della Cai di papà), tutti molto a rischio. Chissà come si reinventerà Giovanna Melandri che di Walter fu l’alter ego femminile nel correntone prima e nel Pd poi, fino a sognare una candidatura in Campidioglio (al posto di Rutelli forse avrebbe vinto, chissà).
Se lo guardi scorrendo questo variopinto almanacco ti rendi conto che al di fuori della cerchia ristretta, il veltronismo non fu una fucina di quadri, ma una sorta di geniale casting collettivo, un bando di arruolamento nel progressismo soft, segnato anche dai limiti dell’estemporaneità. Dove finirà l’architetto Malfatto con le sue scenografie congressuali «emotive», stile Almanacco del giorno dopo? Dove i Dj-Ds come Pierluigi Diaco, che con Veltroni duettavano in radio? A quale politico Francesco Totti regalerà una maglia numero dieci? A chi fornirà un nuovo inno Lorenzo mi-fido-di-te-Jovanotti? Sì, è vero, c’erano anche i veterani, ma soprattutto fra i cineasti. È curioso scoprire che «lo zoccolo duro» di un leader per ben due volte segretario, fossero Ettore Scola e Gigi Magni, Riccardo Milani, Massimo Ghini ed Enrico Lo Verso, la madrina dell’Ambra Iovinelli Serena Dandini o i capistruttura Rai alla Andrea Salerno. Già auto-congedata, con mirabile lettera di dimissioni, Sabrina Ferilli, a lutto per una immunità concessa dal Pd (in nome della solidarietà di Casta) a Katia Bellillo. E forse anche Roberto Benigni, con battutaccia sanremese. Ma che dire di scrittori come Sandro Veronesi, forgiato sulle colonne de l’Unità due e Ugo Riccarelli, accompagnato allo Strega? Entrambi reinventati nel grande baccanale capitolino, nel Walter-mondo, come jazzisti importati nella società civile, alla Paolo Fresu. Fra questi, quelli che avrebbe davvero messo la mano sul fuoco per Walter – dalla scrittrice Clara Sereni, agli sceneggiatori Sandro Rulli e Stafano Petraglia – erano tutti estranei a una storia di partito, compagni di strada arruolati nel cammino della vita. Su questo bisognerebbe aprire una riflessione: non era e non è veltroniano Dario Franceschini, che ricordiamo impegnato in una storica battaglia «contro il Partito democratico» (giuro!) ai tempi del duello nel Ppi con Castagnetti. E nemmeno Ezio Mauro e Paolo Mieli, che pure battezzarono il leader del Pd nella sua ultima epifania di numero uno: un giro di Walter che è durato quanto un fidanzamento estivo. Ieri Mauro bacchettava, eccome. Sono invece i compagni di merende che patiranno di più: ad esempio Pietro Calabrese, giunto a una spanna dalla poltrona di Viale Mazzini, in virtù di un vincolo amicale a cui si stava per sacrificare la storia antica di Claudio Petruccioli. E che ora, finita l’era veltroniana, ritorna nei ranghi della normalità. Non riusciamo a immaginare il futuro di Sergio Zavoli, l’ultimo impoltronato, alla guida della Vigilanza, due volte amico: sia di Walter che di suo padre Vittorio. Non uscirà dalla gravitazione del veltronismo un uomo come Mimmo Calopresti, che dedicò alla Roma veltrona, in modo diverso, i suoi ultimi due (bellissimi) documentari. A qualcuno, come Concita De Gregorio, autrice di un editoriale al vetriolo dopo la sconfitta del voto sardo, la de-veltronizzazione del Pd farà bene, se è vero che ora il quotidiano del partito spara senza remore sugli inciuci «degli oligarchi» di partito. Più difficile il destino di Gianni Riotta, impoltronato principe, uno che non perdeva occasione di rievocare un dialogo via internet con Veltroni trascritto su l’Unità, come se fosse un frammento omerico; Gianni che battezzava Red Tv, da papa in visita ad un santuario francescano. Non sappiamo cosa sarà di Youdem – creatura catodica del segretario – e nemmeno del suo anchorman Attilio Michelozzi che si autoribattezzò «un Bruno Vespa veltroniano».
E come si regoleranno gli interlocutori dell’altra sponda? Ad esempio Umberto Bossi, che diventava sorprendentemente cinguettoso di fronte alle astensioni veltroniane sul suo federalismo, il gemello separato Gianfranco Fini (coetaneo aennino) e l’imporcellanato Gianni Letta (il Letta più vicino a Veltroni) che col segretario del Pd continuava a trattare, incurante di ogni burrasca dalla Rai alla legge elettorale. Resteranno orfani gli aspiranti «veltronologi» (fra cui chi scrive, e ben tre biografi), quelli che per anni si sono divertiti a cercare messaggi codificati fra pagine di libri, racconti e cortometraggi. E persino i divini satireggiatori del veltronismo come Maurizio Crozza e il suo autore principe Stefano Disegni, l’inventore del Ma-anchismo che sta a Walter come E=Mc2 e la relatività ad Albert Einstein. Potremo solo dire, tutti quanti: eravamo veltroniani, certo. Ma anche no.
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