E poi, a un tratto, Emanuele Macaluso quasi si arrabbia: «Eh, no. Io la parola vergogna riferita alla nostra storia non la userei mai, mai! Non conosco né la parola vergogna, né la parola imbarazzo! Piuttosto potrei dire: mi vergogno di dire vergogna…». Dopo la polemica sul caso Violante e il Riformista vado a trovare l’ultimo grande vecchio della sinistra, nella sua casa di Testaccio. L’ex direttore de l’Unità, nume tutelare del riformismo italiano, abita in un appartamento spartano ma elegante, foderato di libri e di quadri. Trovi Macaluso nel tinello, seduto sul divano con accanto un ponderoso volumone delle Opere complete di Marx (l’ultimo della serie, appena stampato) e lui quasi lo brandisce: «Guardi, guardi com’è attuale! Si parla anche di voi…» (noi giornalisti ovviamente). È una lettera di Marx a The Werker del 1871. Macaluso legge: «Caro direttore, la mia lettera agli internazionalisti è semplicemente una falsificazione della stampa borghese… La falsificazione è diventata uno strumento di lotta». Macaluso mi guarda e commenta con uno dei suoi meravigliosi sogghigni: «Eh, eh, eh…». Così la discussione sul caso Violante diventa spunto per una riflessione sulla storia del Novecento, sul problema della memoria, sull’identità della sinistra.
Senatore, vuole dire forse che anche quell’articolo di Violante è stato una falsificazione della stampa?
«Nooo…. Sono stato direttore di un quotidiano, non sono di quelli che se la prendono con i giornali».
E quindi, quel titolo del «Riformista» che ha fatto arrabbiare l’ex presidente della Camera?
«Guardi, ho tutti gli articoli: Pansa, Violante, Polito… Ce li ho qui».
Tutti sottolineati, vedo.
«Parliamoci chiaro: il titolo è un po’ forzato. Ma Violante quel concetto lo dice. Non c’è nessuno stravolgimento. Usa l’espressione “imbarazzo”. Oserei dire: purtroppo».
Che idea si è fatto?
(Allarga le braccia). «Mahhh… sarò sincero: l’impressione è un po’ penosa».
In che senso?
«Mi spiace dirlo, ma l’articolo di Violante sulle foibe è superficiale. Mostra di non conoscere la storia, non solo del nostro partito, ma anche dell’Italia».
Dice che solo da pochi anni, anche grazie a lui, si è sollevato quel velo…
«Vede? Questo non è vero».
Scrive che si sente corresponsabile di assassinio…
«Ma per carità! Questo è uno sproposito per chiunque conosca la discussione che c’è stata fra noi».
Non ci fu complicità? Violante fa paragoni con i nazisti per Mauthausen…
«Nemmeno per sogno. E faccio due esempi. Da dove veniva Rossana Rossanda?».
Dall’Istria?
«Ma certo! Inizia così il suo bellissimo libro. Era militante comunista, ma esule, come si direbbe oggi. E stava nel Pci!».
Forse era una mosca bianca…
«Affatto: a Trieste c’erano dirigenti storici, come Vittorio Vidali, che per filosovietismo era ferocemente anti-jugoslavo».
Però questo non vuol dire a priori che non ci siano state corresponsabilità.
«Andai a fare la campagna elettorale del 1962 per le regionali proprio a Trieste. Posso testimoniare che su quei temi, nel partito c’era un dibattito vivacissimo e tutt’altro che omertoso. Anzi: posso dire che delle foibe si discuteva, eccome, anche nel Pci».
Non c’era imbarazzo?
«Certo! A volte si avvertiva il timore di portare acqua al nemico: ma negli organismi dirigenti se ne parlava moltissimo e con forti accenti critici».
Vuol dire che contesta a Violante il diritto ad essere revisionista sulla propria biografia politica?
«Per carità, non ci penso. Tutti hanno il diritto di cambiare idea quando vogliono».
E allora?
«C’è un obbligo: quello di avere un minimo di rigore. Di documentarsi. Di non scrivere spropositi. Di citare fonti…».
E vuole dire che l’ex presidente della Camera ha fatto questi errori?
«Insomma: se Violante aveva tanti dubbi perché ha aspettato la caduta del Muro, se non questi anni, per esprimerli?».
Era giovane…
«Sì, però ha fatto in tempo ad essere deputato del Pci, responsabile giustizia… Io non ricordo di averlo mai sentito parlare di questi temi nel Pci».
Vuol dire che c’è di mezzo l’elezione alla Corte Costituzionale?
«È una malignità in cui non voglio addentrarmi… Però c’è oggi una corsa di molti ex comunisti che sembra abbiano come unico fine parlare male del Pci».
E se non è opportunismo cos’è?
«Un problema psicologico: il bisogno di liberarsi di un fardello, credo. L’incapacità di fare i conti con la propria biografia».
Quello di Violante era un pezzo pieno di emozione.
«Non voglio criticare le emozioni. Ma quando uno scrive un articolo le emozioni le controlla per forza!».
È un fenomeno che colpisce molti leader del Pd della generazione dei cinquantenni, a partire da Veltroni che dice di non essere mai stato comunista.
«E io non gli credo per niente».
Lo crede in malafede?
«Si sarà pure convinto. Solo che non è la verità. Eh, eh eh…».
E allora come spiega questo fenomeno di denegazione?
«Mi pare l’incapacità intellettuale di fare una vera revisione autocritica. Io, quando ho scritto il mio libro, in molti casi ho scritto: ho sbagliato. Chiaro? Ma costa. Costa!».
E il revisionismo dei cinquantenni costa meno?
(Sorride) «Oh, sì… Loro danno un taglio netto, dicono: io non c’entro… È molto più facile dal punto di vista intellettuale».
Potrebbero accusarla di essere troppo auto indulgente.
«Ennò! Io la mia riflessione l’ho fatta venti anni prima di loro… Nel libro di Luciano Barca si racconta di una volta che nel 1964 mi alzai in comitato centrale per dire: non sono d’accordo… C’era Togliatti, non so se mi spiego».
Era più difficile…
«Uhhh…».
Lei e Napolitano eravate miglioristi…
«Ossì! E io ne ero orgoglioso, capisce? L’idea di migliorare questa società a poco a poco è ciò che ci ha vaccinato dalle palingenesi rivoluzionarie di allora. E dai ripensamenti e dalle amnesie di oggi».
«L’autocritica di Violante? Credo voglia solo liberarsi la coscienza»
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