Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Kojak Curzi, l’inaffondabile che portò Telekabul in Rai

Un giorno, a Montecitorio mentre armeggiava la sua inseparabile pipa: «Ahò, stavo proprio pe’ morì! M’hanno ripreso pe’ i capelli, che tra l’altro non ho…».
Era così, Sandro Curzi, diretto, autoironico. Lo divertiva l’idea che «i coccodrilli», i pezzi sulla sua morte, sarebbero rimasti nei cassetti: «Sarebbe bello leggerli, no? Come miracolato c’ho diritto, Eh, eh, eh». Poi ti spiegava con dovizia di particolari i dettagli dell’amputazione del polmone: «Ancora pochi giorni e – zac! – ero secco. Guardami ora: un fiore. Sai che c’è? La proroga mi va benissimo. Ma i conti con la vita sono già in attivo. Quand’è così vivi bene!». È morto ieri, quasi dieci anni dopo quella chiacchierata. Nel 1996 aveva pubblicato la sua autobiografia, Il compagno scomodo. E anche lì, la penna gli era sfuggita: «Ora che la parola fine sembra che si stia scrivendo in fondo alla mia storia di giornalista…». Ma quale Fine? Lo aspettava ancora la direzione di Liberazione e altri ruoli di prima linea: una battaglia nel Mugello contro Ferrara e Di Pietro alle suppletive, il Cda Rai… Ti diceva: «Ormai sono a fine mandato…». Poi lo incontravi: «Sto lavorando a un satellite Rai. Facciamo un’intervista per lanciare la cosa?». A viale Mazzini fu persino «consigliere anziano». Di fatto «presidente», per anagrafe, e la cosa lo faceva godere da matti. La Cdl era a caccia di uno più anziano di lui da eleggere, pur di sostituirlo. E lui a Montecitorio se la rideva: «Sai, di babbioni come me ce ne sono tanti…. Ma per trovarne uno più vecchio je serve un 90enne: e la maggior parte so’ rincoglioniti».
Diciamo la verità: Sandro Curzi era uno di quelli tecnicamente inaffondabili. Avevo messo il suo nome in un pezzo sui «sugheroni» fra le due Repubbliche, e temevo che potesse essersi offeso. Lui, invece, si felicitava: «Ahò, per me è ’no spot!». Un pezzo su Curzi non puoi scriverlo tu, se lo è scritto da solo. «A Giuliano Ferrara je dovrei fà un monumento…». Ma come? Non si erano sfidati a morte? E lui: «Che c’entra? Il regalo più grande me l’ha fatto quando è andato sotto “il tempio di Bettino” (la scenografia di Filippo Panseca per il congresso del Psi, ndr) e se n’è uscito in quel modo». Aveva gridato, Giulianone: «Il Tg3 è Telekabul!», e Curzi: «Capisci? Per noi era una consacrazione. Mai stati così popolari!». A sinistra era di certo vero. Ma la cosa che lo faceva arrabbiare di più, era che lui, che aveva sfidato il pentapartito, fosse stato fatto fuori dai «professori» del centrosinistra: «Di tv non capivano proprio un cazzo, e pazienza… Il dramma è che se ne vantavano!». Poi, più amaro: «Avevamo spezzato le gambe al Caf, poi arrivano i nostri e ci tagliano la testa». La storia si era ripetuta al tg di Tmc, silurato da Cecchi Gori, all’epoca senatore dell’Ulivo. Ritratto feroce e divino: «Un mega-riccone-orso-mannaro: naturalmente volgare, ingenuamente crudele». Poi, con un sospiro: «Il problema non era lui, ma che i miei compagni, compreso Veltroni, che è un amico, gli avevano dato er placet». Nel 1995 era andato persino a Sanremo, nel gruppo Riserva indiana (con David Riondino e altri amici) a cantare Troppo sole. Si era ribattezzato, in onore alla pelata: «Grande capo vento nei capelli».
Se lo racconti, Curzi, devi raccontarlo così: la romanità, le battute. La carriera iniziata nella Fgci con Berlinguer. L’elogio della lottizzazione: «Sì, c’erano i targati. Ora invece fanno carriera solo coglioni e servi». Diceva del suo accento: «Da neoassunto alla Rai era un problema. Poi è diventato una griffe. Capisci la vita?». Vantava un altro copyright: «La gggente modestamente l’ho inventata io. Tutt’alpiù Forattini m’ha dato un aiuto». Ma è un errore crederlo una macchietta.
Curzi conosceva tutti. Forattini dai tempi di Paese sera, dove raccontava che Amerigo Terenzi, nominandolo vicedirettore gli aveva detto: «Fai il giornale che vuoi. Purché venda». E così lui si era riempito la redazione di collaboratori insospettabili: «Un giorno sì e l’altro pure c’erano la Carrà e Boncompagni. Il segreto dei giornali è che te devi divertì». Il primo pezzo a 14 anni: ««Ma non era un articolo. Era milizia politica distillata in parole».
A Nuova generazione – rivista della Fgci – raccontava orgoglioso che per un titolo eterodosso sull’invasione di Praga («Il nostro cuore è diviso») «Le federazioni emiliane si rifiutarono di distribuire il giornale». Il suo Tg3 era accusato di aver sdoganato An?: «Era giornalisticamente giusto, lo rifarei». Nel ’97 il Pds lo aveva persino processato nella sezione Giubbonari: espulsione per la candidatura nel Mugello: «Roba da pazzi». Non era un santo, certo, aveva metri di pelo sulla pancia. Infatti passò due minuti dopo con Bertinotti. Ma era anche così. Arrivato a Liberazione assunse una collega de Il Giornale, Stefania Podda. Ci furono proteste. E lui: «Ma che volete? È più brava di voi. Punto!».


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