Erano «brutti sporchi e cattivi», come direbbe Ettore Scola. O «Esuli in patria», come ha detto Marco Tarchi, che era uno di loro. O «Topi di fogna», come dicevano i cori dei loro avversari, e come si rappresentano loro stessi – autoironicamente – sulle pagine del loro giornale preferito, La Voce della fogna.
Erano «Cuori neri» in una città rossa con un passato mussoliniano. A Roma i missini del Dopoguerra erano cresciuti come se fossero chiusi in un paradosso temporale. Da un lato vivevano nelle vestigia dell’Architettura del Ventennio, dell’Eur, del Foro italico, nel mito dell’aquila della Lazio (che all’occorenza poteva sembrare «imperiale»), sotto l’obelisco Dux (incredibilmente sopravvissuto alle commissioni per l’epurazione toponomastica). Dall’altro crescevano sotto i governi democristiani prima e «le giunte rosse» poi. Cantava Marcello De Angelis, guru della musica alternativa con il suo gruppo 270bis, oggi senatore di An: «Vieni a passeggio con me su «ponte Mussolini»/ Dove corrono i bambini con fazzoletti neri/ Oggi come ieri/ Oggi come ieri…» (il fatidico ponte, dal ’45 si chiama «Flaminio»).
Crescere nella Fiamma, a Roma, voleva dire essere minoranza politica, certo, ma anche capitale della destra in Italia, il partito più forte di tutto il Paese. C’era, in quel Movimento sociale uno strano impasto di popolo e aristocrazia: il sottoproletariato di Primavalle, l’orgoglio dei reduci della famiglia Mattei scampati al rogo; e la nobiltà nera, coi record elettorali del principe Lilìo Sforza Ruspoli, il latifondista che voleva la terra per i contadini ed era il più votato del Msi. Si ritrovavano sotto la bara trapezoidale sopra cui ardeva la Fiamma «della Buonanima» i nostalgici del regime e i neofascisti del Dopoguerra, e ci stava con il suo grande cuore persino uno come Aldo Fabrizi che negli anni Trenta era sotto controllo speciale dell’Ovra per le sue barzellette anti-regime. E che negli anni Novanta sarebbe stato considerato un appestato dalla sinistra cinematografica per il suo baciamano galante ad Edda Ciano il giorno dei funerali di Giorgio Almirante. Sulla Cinquecento in cui passava alcune delle sue notti, ha costruito una vera e propria mitologia privata Teodoro Buontempo detto Er Pecora: e a Roma c’erano tutte le destre che si combattevano e che si abbracciavano.
Dai nazimaoisti di Giurisprudenza occupata nel 1968, al «Bava» che aveva provato a sloggiare i suoi stessi camerati dalla facoltà a randellate, dagli Avanguardisti di Stefano delle Chiaie detto «er Caccola», dagli spiritualisti evoliani, ai mistici, agli intellettuali rautiani, ai librai ordinovisti, agli aspiranti golpisti del Fronte Nazione del principe Junio Valerio Borghese, ai cultori del «fascismo bucolico» come il professor Paolo Signorelli (fondatore delle comunità agricole), ai terroristi nichilisti dei Nar. Memorabile l’aneddoto di uno storico dirigente come Giulio Caradonna, su quando Beppe Niccolai (altro leader di lungo corso) gli riferì scandalizzato che c’erano sezioni in cui si ammazzavano i galli: «Ecchessarà mai se si fanno uno spiedo…», aveva risposto in un primo tempo. E quello: «Ah Giù, che hai capito? Quelli so’ riti sacrificali pagani!». E Caradonna, scandalizzato: «Ma come? stamo nel cuore della romanità e questi sognano de diventà barbari come Vercingetorige?».
In questo mondo iridescente e caotico in cui spesso si potevano trovare tutto e il contrario di tutto, c’era una sola famiglia politica molto compatta e solidale, quella cementata intorno ai figli del partito, i ragazzi del Fronte della Gioventù. Il responsabile giovanile era Buontempo, quello studentesco era Fini, quello degli studenti medi Gasparri, il suo vice Gianni Alemanno (!). Molti di loro avevano rischiato la pelle negli anni di piombo, quando vivere in un quartiere rosso o nero poteva fare la differenza fra la vita e la morte, e Storace diventava segretario di Acca Larentia perché tre missini erano morti ammazzati. Dei ventuno ragazzi di Destra morti fra il 1970 e il 1983 ben 11 erano di Roma. «Io li ho conosciuti tutti!», disse un giorno Fini. Di uno di questi – Paolo Di Nella – Alemanno era amico fraterno. Il Fronte della Gioventù viveva stati d’animo variabili, a tratti si sentiva fortino assediato o ghetto; altre volte comunità separata scanzonata e goldiardica. Alemanno stava al Righi, un liceo «tutto sommato di destra», ed era più tranquillo. Ma se doveva raccontare quegli anni sintetizzava con una immagine: «A due passi c’era il Tasso, che era tutto di sinistra, il ricordo più nitido che mi viene in mente è questo, Maurizio Gasparri e Antonio Tajani che corrono, e dietro 200 persone che li rincorrevano». Anche il Fronte aveva la sua milizia di mazzieri: «Li chiamavamo Gi-O, gruppi operativi. Passavano la giornata in sezione accanto al telefono – ricorda il futuro sindaco – e quando venivano chiamati correvano di qua e di là» (non certo a distribuire viole): «Una sorta di ambulanza nera». Molti di questi ragazzi neri facevano il loro apprendistato a Il Secolo d’Italia, al punto che il direttore del Tg2 Mauro Mazza ci ha scritto sopra un bel libro di amarcord, I ragazzi di via Milano. Poteva anche accadere che per pagare l’affitto della sede di via Sommacampagna – lo racconta Buontempo – i giovani missini venissero arrestati sotto un ponte del Tevere. «Stavamo bruciando le lastre in un bidone per estrarre nitrato d’argento da rivendere – ricorda oggi ridendo lui -, ci scambiarono per papponi, ci ritrovammo in questura!».
Negli anni Ottanta, quando Alemanno diventa segretario del Fronte della Gioventù, battezza una stagione di apertura «all’esterno», un tentativo di forzare le pareti del «ghetto» missino: è il tempo dei «campi Hobbit», dei convegni sugli anni Settanta, della «Nuova Destra», del tentativo di chiudere (con un omonimo fantastico libro) la stagione del «C’eravamo tanto armati». Gli anni Ottanta furono gli anni in cui Alemanno invitava il comunista Trombadori a chiudere con un dibattito gli anni dell’antifascismo ideologico, in cui i missini si specializzavano nell’opposizione ai governi di pentapartito, si radicavano nel territorio con i murales di Colle Oppio, con i balder disegnati sui muri, i caratteri un po’ gotici e un po’ runici dei loro tazebao. «È amore per il proprio popolo», si leggeva sui manifesti serigrafati dall’avvocato Rampelli (futuro deputato), nelle edicole usciva una rivista sperimentale con un titolo epidemico (da cui lo slogan indimenticabile «Diffondi il Morbillo»). Alemanno e l’intellettuale di riferimento della nuova destra, Umberto Croppi, si candidavano alla regione con un volantino in cui andavano in 500 sulla luna. Slogan: «L’altra faccia della politica». L’amatissimo Tony Augello fa campagna elettorale in carrozzella e megafono. Tutto cambia quando nel 1993 Fini si candida a sindaco di Roma, da Casalecchio di Reno Silvio Berlusconi dice: «Se fossi a Roma lo voterei». Quasi con un colpo di bacchetta, sulle rovine della Dc, il Msi tocca il 47%. Alemanno nel 1994 fu eletto nell’uninominale nelle periferia di Corviale (dove ha aperto la sua campagna). Nasce la destra di governo, si celebra il rito di Fiuggi, finisce il Msi. «Erano zucche, li ho trasformati in principi», disse una volta il Cavaliere. L’unica cosa certa è che oggi uno di quei ribelli un tempo neri diventa sindaco dedicando la sua vittoria «ad Augello e agli elettori trasversali e di sinistra che mi hanno votato». Quanta acqua è passata sotto il «Ponte Mussolini».
Dal ghetto al trono di Roma la traversata dei «cuori neri»
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