Nel giorno della vittoria incredibile lo accolgono come un eroe all’assemblea dei deputati e dei senatori di centrodestra, al cinema Capranica. Gianni Alemanno ci arriva da neosindaco, carico di adrenalina, ma anche sorridente, scaramantico quando rifiuta la fascia tricolore che gli vuole regalare Gabriella Carlucci («e no, aspetto quella vera!»), incassa e riferisce di due battute memorabili che sdrammatizzano il clima para-apologetico. La prima quella di Maurizio Gasparri: «A Gianni! Stasera volevo tornà con la metro C, l’hai finita o no? Basta con le promesse elettorali». La seconda, quella surreale di Umberto Bossi: «Ue, adesso che hai vinto devi espellere tutti, a partire dai romani». Eppure, Alemanno sembra molto sereno, molto pacato, quando spiega la sua campagna elettorale resta con i piedi a terra.
Lei ha iniziato con tre dediche-simbolo. La prima, quella al marito della signora Reggiani, vittima dell’insicurezza a Roma.
«Sì, perché quella morte ha rotto l’immagine artefatta e non vera del tutto mediatica, di una capitale sicura. Roma non lo era, e purtroppo qualcuno ha pagato con la vita per questo inganno».
La sicurezza è stato il suo cavallo di battaglia. Anche violando il politicamente corretto, è così?
«Sono stato molto fermo, e molto netto. Ma ci tengo a dire che mai, nemmeno una volta, ho pronunciato una parola di odio, di demagogia, di xenofobia, di intolleranza».
I suoi avversari non la pensano come lei.
«Però siamo arrivati al paradosso che nel duello con Rutelli lui additava i romeni alla pubblica opinione, mentre io non ho mai fatto nessuna discriminazione. Ho sempre detto che volevo perseguire quelli che delinquevano».
La seconda dedica, a Tony Augello, consigliere di opposizione del vostro partito.
«Sì, è una figura quasi mitica dell’Msi e di An a Roma. Uno che ha fatto l’opposizione a Rutelli quando sembrava invincibile, uno che ha fatto politica anche quando, malato di cancro, non aveva più nemmeno un capello in testa e solo un filo di voce».
A questo Giornale lei ha ricordato anche il modello di un sindaco rosso, Luigi Petroselli.
«Sì, era un modo per dire che preferivo l’immagine del sindaco che controlla i cantieri e sta per strada, a quello dei burocrati che stanno chiusi nel loro uffici o presi solo dai grandi eventi, incapaci di capire i piccoli grandi problemi di una città».
Mi faccia un esempio.
«Le cito una delle tante periferie che ho visitato, Torre Vecchia, dove dall’alto, come spesso faceva quest’amministrazione, avevano inventato un senso unico folle, per cui, per percorrere cento metri in una direzione, bisognava fare quattro chilometri in quella opposta».
Abolirà subito quel senso unico?
«Ovviamente sì, ma per evitare che succeda ancora, penso al modello di una città partecipativa, in cui si consultano i cittadini».
Lei ha aperto la campagna in periferia, a Corviale, e l’ha chiusa a Torbellamonaca.
«Sì, a Corviale c’erano mille persone, che sembrano poche, se si pensa che con noi c’era Berlusconi, ma che sono tantissime, se si pensa che lì manifestazioni politiche non ce ne sono mai».
Vuol dire che non è stato un insuccesso?
«Al contrario. Erano tutte persone vere. La sinistra preferiva riempire qualche teatro del centro, ma poi quando hanno capito che noi lì c’eravamo, che eravamo entrati in contatto con un pezzo di popolo, hanno provato a recuperare chiudendo a Torpignattara».
Le piace questa sfida nelle periferie?
«Sì, e non solo perché l’abbiamo vinta noi. Ma perché quello è un laboratorio fantastico per la nostra idea di destra sociale. Nel nome del nostro partito, c’è l’idea di popolo, che non è sottoproletariato, ma questa meravigliosa comunità che ha ancora entusiasmo e speranze».
La terza dedica, quella ai voti che lei definisce «trasversali».
«Beh, non ci sono dubbi. Molti che hanno dato il voto al candidato del centrosinistra alla Provincia, Zingaretti, nello stesso giorno hanno votato per me. Quindi, anche molti elettori di centrosinistra ci hanno dato fiducia».
Come se lo spiega?
«Perché eravamo noi il cambiamento. E perché perfino Zingaretti è stato percepito come una discontinuità rispetto a quel blocco di potere che governava Roma dal 1993».
Cosa pensa oggi della candidatura di Rutelli?
«Quello che pensavo prima di vincere, e cioè che fosse profondamente sbagliata. Un atto di presunzione, una imposizione alla città calata dall’alto e segnata da quella presunzione elitaria che la sinistra a volte ha, e che qui a Roma raggiungeva il suo massimo».
Ha temuto quando vedeva che Rutelli provava a scavalcarla a destra?
«Assolutamente no. Io sono andato nella moschea, sono andato nella sinagoga, ho dialogato con tutti. Non mi sono fatto rinchiudere in uno stereotipo e penso che Rutelli abbia perso quando ha fatto questo errore».
Che cosa ha pensato il giorno in cui lo ha sentito dire a Uno Mattina che c’erano dei «sospetti» su di lei nell’inchiesta per lo stupro della studentessa del Lesotho?
«È stata una delle giornate più brutte della mia vita. Quel modo di fare politica mi faceva schifo, avremmo perfino potuto fare dei contromanifesti, che so, tappezzare Roma con i manifesti di Rutelli e Cicciolina. Ma non ho voluto».
Perché?
«Perché quel tentativo di Rutelli, in fondo, era un grande segnale di debolezza, e la perdita di ogni freno inibitore e di ogni codice di convivenza civile di fronte al potere che svaniva».
Non le ha fatto perdere voti?
«Caso mai me li ha fatti guadagnare. È finita la politica degli scheletri negli armadi, delle storie private, deformate, distorte e gettate in faccia alle persone come un’ingiuria».
Quando ha pensato davvero che avrebbe potuto vincere?
«Un giorno sono arrivato al Don Orione in moto mentre i ragazzi della parrocchia giocavano a pallone».
Cosa è successo?
«Mi sono tolto il casco, e una nube di ragazzi di 12-15 anni al massimo mi ha circondato acclamandomi, come se nemmeno fossi un calciatore».
Cosa voleva dire quella celebrità?
«Che il legame fra la sicurezza, la questione identitaria e le istanze sociali si erano fusi ed erano arrivati al grande pubblico. È stata questa la formula magica, il segreto di una vittoria».
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