Un tempo si presentava in televisione con le torte per festeggiare i compleanni di Mani Pulite e distribuiva le schedine del Totoinquisiti; oggi deve fare dichiarazioni pubbliche per rinunciare a quell’immunità parlamentare che 15 anni fa voleva abolire ad ogni costo.
Curiosa la vita. Peggio di una sentenza o di un rinvio a giudizio, ieri, per un antiberlusconiano come Alfonso Pecoraro Scanio, più di ogni altro guaio legale, deve aver pesato la perfida «dichiarazione di solidarietà» cesellata da Silvio Berlusconi: «Poverino Pecoraro, ha i giudici addosso e per questo mi comincia a diventare perfino simpatico…». Deve essere stato più che il sale sulle ferite, per uno che ad ogni processo su Berlusconi invocava le dimissioni del Cavaliere! Eppure, nel gran caos della seconda Repubblica, sembra che tutti i parametri siano saltati tranne questo: il ribaltamento repentino e feroce dei destini individuali, il contrappasso dantesco, il boomerang che torna sulla testa di chi lo lancia come in certi cartoni animati di Hanna & Barbera.
Insomma, al pari dell’ambulanza presa da Gustavo Selva per andare a La7, che disgraziatamente per lui si è trasformata in condanna il giorno prima della chiusura delle liste (producendo «l’autoesclusione» dal Pdl), proprio allo stesso modo in cui la scaltrezza «ribaltonistica» mastelliana è diventata motivo di impresentabilità politica (producendo la dissoluzione dell’Udeur a due giorni dal voto), così il giustizialismo dei Verdi prima maniera ritorna sulla testa del ministro dell’Ambiente come una maledizione e una beffa.
Era già successo ad altri accusatori di Mani Pulite, a dire il vero, di trovarsi nella tragedia di un’inchiesta. Il grande inquisitore Antonio Di Pietro era finito per primo nel vortice, poi anche i Ds eccellenti – da D’Alema a Fassino a Bassolino – avevano conosciuto le cure dei Pm. Ma l’ultimo è lui, Pecoraro, uno che nei tempi in cui portava i capelli riccioluti e più lunghi, la montatura da bravo ragazzo, ed era un giovane e focoso avvocato di Salerno, si era costruito un ruolo da «Angelo sterminatore» dei parlamentari inquisiti, a cui mostrava le manette (al punto che il suo primo ex guru Marco Pannella, che gli inquisiti li riuniva gli urlò contro: «Sei Mister Manetta!»). Nel 1993 – nel terrore delle sue tirate – prima di accettare inviti da Maurizio Costanzo, i parlamentari socialisti si informavano se tra gli ospiti del Parioli ci fosse anche lui (se c’era declinavano). Nel giorno del primo anno di «Mani Pulite», Pecoraro si fece fotografare a Montecitorio con una gigantesca torta a forma di stivale (festeggiava il pool di Milano). Sempre davanti alla Camera, il futuro ministro distribuiva ai passanti una «autocertificazione di onestà» e si era inventato un Totoinquisiti stile Totocalcio. Era anche il recordman delle interrogazioni, aveva due collaboratori che facevano solo quello, si era costruito una fama sull’estetica dell’atto ispettivo (inteso come forma di attività politica più vicina all’indagine giudiziaria).
Già allora portato alle contaminazioni fra politica e bella vita, Pecoraro riuscì a trasformare in tormentone da discoteca l’invocazione «Ad Hammamet!». E nel 1999, ai tempi della Bicamerale, tuonò contro la riforma dell’ordinamento proposta da Massimo D’Alema gridando all’inciucio: «L’ipoteca che Forza Italia cerca di mettere sulla Bicamerale per il controllo politico della magistratura va bloccata». Ieri, lo stesso Pecoraro, da un lato ribadiva fiducia nell’istituzione giudiziaria, dall’altro lamentava la crudeltà della «giustizia a orologeria».
Un tempo era implacabile: «C’è una vera e propria lotta ideologica contro la magistratura, colpevole solo di applicare la legge contro i potenti corrotti o collusi con la mafia». Adesso che la ruota del destino gira il potente è lui (è diventato ministro per la prima volta nel 1999). E sempre lui deve invocare i distinguo e i chiarimenti perché non si faccia di ogni erba un fascio. Diventa quasi un esercizio carognesco declinare sui suoi attuali guai giudiziari il diluvio di dichiarazioni intransigenti di quando era sul banco degli accusatori: «Nella prossima legislatura – diceva – l’Unione dovrà rimediare allo sfascio istituzionale prodotto dalla Cdl, che ha voluto punire i magistrati, rei solo di aver indagato su imputati eccellenti» (2006). Ora l’imputato eccellente è lui. Forse il Pecoraro di oggi non ripeterebbe le professioni di stima ai giudici del Pecoraro di ieri: «Quella della magistratura non è questione corporativa, ma una garanzia per tutti i cittadini». In queste ore si è difeso: «Non ho mai avuto un euro dal ministero!», mentre due anni fa diceva: «Non ho scheletri nell’armadio. Ricordare ai politici che non si ruba non è giustizialismo». Sarà vero. E sarà anche innocente, il ministro. Ma l’unico vero problema di Pecoraro oggi, è che il pecorarismo, fino a ieri non ha mai atteso il tempo delle sentenze per stilare i suoi verdetti.
Quando Pecoraro invocava le manette
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Una risposta a “Quando Pecoraro invocava le manette”
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