Luca Telese
E meno male che poi ci sono anche i primi piani, perché all’inizio perfino la cravatta di Walter Veltroni, vista da lontano, ricorda un po’ quella di Silvio Berlusconi: non più quella rossa sfavillante del discorso di Spello, ma una blu molto scura a pallini bianchi. Ma non è solo la cravatta, ovviamente, che unisce i due leader nel momento in cui Pd e Pdl puntano entrambi verso il centro. Molte sono le analogie che uniscono i due leader. Adesso Veltroni sembra molto più simile al Cavaliere di quanto non possa sembrarlo con i leader di centrosinistra del recente passato. Adesso Veltroni dice che la legge Biagi lui la difende, che in Afghanistan ci sono «i nostri ragazzi», che «il nucleare per me non è un tabù, considerando le nuove tecnologie, non ho nessuna opposizione di principio». E poi entrambi dicono che vogliono semplificare, entrambi aspirano a correre da soli, anche se perfino il Pd veltroniano, che fa grande vanto di aver terremotato il sistema politico, alla fine correrà con un simbolo apparentato, il gabbiano dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Segno che il nuovo è facile a farsi, ma difficile a realizzarsi, se è vero che solo domenica scorsa Veltroni affermava: «Saremo soli e liberi».
Anche il nuovo Walter Veltroni cita i sondaggi con la stessa intenzione «tonificante» del Cavaliere; ieri assicurava che «sondaggi veri ci danno in rimonta di due punti nell’ultima settimana». E poi, ovviamente, ci sono anche le differenze. Veltroni, che deve rimontare, è molto più arrembante, forse perfino volutamente brioso, il Berlusconi che deve amministrare un grande vantaggio, è sorprendentemente prudente. Veltroni sembra più ironico, ma spesso sfiora l’indispettimento, ad esempio quando, dopo una domanda del direttore di questo giornale su tre proposte di Obama, si lasciava sfuggire un sorriso un po’ piccato: «Sia bravo, su Fonzie gliel’ho fatta passare liscia, adesso non esageri… ». La colpa di Mario Giordano era semplicemente quella di avere infilato fra i suoi modelli, notoriamente eclettici e nazionalpopolari, una sequenza di riferimenti che andava da Kennedy a don Milani, passando per l’eroe di Happy days.
Per il resto sono due vecchie volpi, entrambi giocano sui punti di forza e di debolezza dell’avversario. Berlusconi ricorda che lui è in politica «da soli 14 anni», Veltroni ribatte, parlando di sé e della sua lunga militanza, «che non c’è nulla di male ad avere una lunga esperienza in politica, di solito quelli che cambiano i Paesi ce l’hanno». E poi entrambi devono dire che sono pronti al dialogo, ma che sono diversi dall’avversario. Entrambi devono smarcarsi dall’eredità delle loro coalizioni, e questo costa un sacrificio di gran lunga più grande a Veltroni, che deve affrancarsi dall’eredità non proprio esaltante del governo Prodi. Ieri, nell’intervento a Porta a porta era quasi clamoroso il ragionamento «ma-anchistico» su Romano Prodi, «il suo governo è quello che ha risanato il Paese», ma anche «bisognava riconoscere il fatto che il Paese era spaccato, e non approfondire la spaccatura». Come? «Ad esempio – è la risposta di Veltroni – nominando un presidente delle Camere che facesse parte dell’altra coalizione». Di più, Veltroni considera incredibile il fatto che «Berlusconi e Prodi non si parlavano», e ritiene indispensabile che dopo il voto si apra «un patto di consultazione».
Entrambi, poi, sono due navigati polemisti, che appena vengono incastrati in uno stereotipo, anziché farsi crocifiggere nell’imbarazzo ricorrono subito all’antidoto. Due giorni fa Silvio Berlusconi ammetteva di non essere più Superman se non «per il mio nipotino». Ieri Veltroni continuava a citare i «pacatamente» e i «serenamente» che gli attribuisce l’imitazione di Maurizio Crozza prima che glieli ricordasse chiunque altro dei suoi interlocutori. Certo. Si può dire che Veltroni un po’ «berlusconeggia», ad esempio quando parla di tasse, di stipendi, quando lancia nuove proposte a raffica, sgravi fiscali per le madri, per le donne che lavorano, persino una ricetta antiprecarietà, «il compenso minimo legale» (che poi sarebbe un reddito minimo garantito prescritto alle imprese, e sostenuto anche in questo caso con sgravi fiscali). Un tempo la sinistra rimproverava al Cavaliere di fare promesse senza verificare i conti, adesso Veltroni segue alla lettera i consigli di Claudio Velardi che lo invita «a fottersene delle compatibilità economiche». Ed è evidente che se uno propone quattro sgravi nel giro di cinque minuti, non ha al primo punto delle sue priorità la quadratura dei bilanci. Rispetto alla marmoreità di Prodi, alle sue frasette bofonchiate a mezza bocca, Veltroni è molto più televisivo. Però alla fine, se li vedi in questo confronto a distanza ravvicinata, ti rendi conto che nel duello fra il «buonismo veltroniano» e il nuovo «bipartisanismo» berlusconiano, c’è ancora qualcosa che manca. Veltroni cita la sua sindacatura come se fosse un’esperienza mistica, Berlusconi ricorre sempre agli scudetti del Milan come a un mantra, ma sono poche sbavature in un copione di grandissimo rispetto reciproco, i due non si insultano mai e si citano perfino con reciproca parsimonia. Sarà una campagna civile, sarà una campagna fatta «pacatamente e serenamente», ma è una campagna che senza dubbio deve ancora entrare nel vivo. Forse quello che si differenzierà per primo dopo tanti annusamenti reciproci sarà quello che vincerà davvero.
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