Luca Telese
Il biglietto, solo pochi secondi prima di uscire dalla sezione, lo scrisse Franco Bigonzetti, lasciandolo sul tavolo come si faceva prima che inventassero gli sms: «Siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco». Invece Franco, i camerati con si era dato appuntamento non li avrebbe rivisti mai più. E la sera stessa sarebbe finito immortalato in una di quelle terrificanti istantaee da paparazzo per cui oggi i garanti danno il carcere a vita. La foto all’epoca fu pubblicata, invece, su L’Espresso. E a doppia pagina, con un titolo da far accapponare la pelle La guerra civile italiana. Era appropriato. Nella foto Franco è riverso su un lettino d’ospedale, ha un occhio perforato da una pallottola e il viso allagato di sangue, la camicia stropicciata e alzata sulla pancia, con il capezzolo scoperto, e sopra un’altra macchia di sangue, e la cravatta ancora allacciata, perché la morte quando ti sorprende è strana, non si cura mai dell’incoerenza. Con lui morirono altri due ragazzi, in una serata festiva romana. Francesco Ciavatta, che dall’ingresso della sezione fece in tempo a trascinarsi fino alle scalette. E poi, per la ferita di quella sera, morì poco dopo Stefano Recchioni. Morirono in tre, e in condizioni folli e incredibili, e furono seguiti da altri tre morti, tutti legati a quella carneficina: dopo scontri con la polizia, guerriglia urbana e candelotti lacrimogeni, P38, barricate in strada, auto incendiate. Una maledizione che inizia lì, il 7 gennaio 1978, Sezione di Acca Larentia. O meglio: «strage di Acca Larentia». Trenta anni fa, il giorno che tenne a battesimo la nascita del terrorismo nero.
Acca Larentia era una delle sezioni di periferia del Msi, nel pieno degli anni di piombo. Uno degli avamposti sperduti, nel tempo in cui le capitali italiane divennero campi di battaglia, nel tempo in cui rossi e neri si sparavano per le vie e i numeri delle vittime e delle rappresaglie iniziavano a confondersi e a sovrapporsi. Morirono in tre, per i fatti di quella sera, ma in realtà avrebbero dovuto essere in sei. Li aspettavano all’uscita dalla sezione appostati. Erano un commando, forse di Autonomia. Probabilmente ottennero ad Acca Larentia il loro battesimo del fuoco, forse il prezzo per arruolarsi nelle Brigate Rosse. Chi ha sparato non è stato mai preso (o meglio: non ancora). La mitraglietta che ha sparato, invece sì. La ritrovò la polizia molti anni dopo, in un covo ornato da una bandiera rossa con la stella a cinque punte che è entrato nella storia del delitto Moro: via Montenevoso, a Milano. Dopo quel delitto anche l’arma aveva fatto carriera. Nel volantino di rivendicazione si firmarono: «Nuclei armati per il contropotere territoriale». Tre morti, vuol dire strage. Ma quello che segnò un punto di non ritorno per una intera generazione, a destra, fu che due delle tre vittime – Franco e Francesco furono uccisi dal commando dei terroristi rossi. La terza no. Stefano Recchioni morì per un proiettile sparato da un ufficiale dei carabinieri, Edoardo Sivori (condannato, al termine di un lungo processo, per «eccesso colposo di legittima difesa»). Era accaduto dopo che il tam tam aveva diffuso per tutta la Roma la notizia della strage. Tutti i militanti della destra romana erano accorsi davanti alla sezione dell’Appio latino. La tensione si tagliava con il coltello, c’erano tutti i futuri dirigenti del partito, compreso un giovanissimo Gianfranco Fini, ancora riconoscibile, in un’istantanea dell’epoca con un lungo impermeabile bianco. Fini si sta accendendo una sigaretta insieme ad un ragazzo più basso di lui. Il ragazzo è Stefano Recchioni, e alla loro sinistra c’è la pozza di sangue dove poco prima è stato ferito a morte Franco. Sopra c’è un mazzo di fiori. Cinque minuti dopo quello scatto, i due destini che sono stati uniti da quella sigaretta fumata insieme con inquietudine si dividono per sempre: Stefano cammina verso il fondo della piazza, dove, anche per via della rabbia e della tensione per i due morti, sta esplodendo una rissa per un ragazzo che è stato appena fermato. Fini resta dov’è. Quando Sivori spara, Stefano viene colpito alla fronte, e la pallottola lo trapassa da parte a parte. Proveranno a dire, gli avvocati del carabiniere, che è un colpo di rimbalzo, che proveniva dalle stesse fila di Stefano. Ma non ci vuole un perito balistico per dimostrare che è una follia.
Quando Stefano cade a terra, in un lago di sangue c’è una ragazza che gli tiene ferma la testa. La ragazza viene da un’altra sezione di periferia, dove tre anni prima hanno ucciso un altro ragazzo che si chiamava Mario Zicchieri. Ed era amico anche di Franco Bigonzetti, che lo presentò a D’Audino. Le vittime e i superstiti, nella destra e nella sinistra militante di quegli anni, camminavano sullo stesso filo, e si potevano chiamare per nome.
Il 7 gennaio del 1978 i destini turbinavano e si incrociavano disordinati. Stefano Recchioni era persino uscito dal Msi, perché considerava troppo moderata la linea di Almirante. Ma poi, finito il volantinaggio in Prati passò davanti alla sezione di Colle Oppio, la sua, vide una folla di cui non capiva il motivo, scese. Gli dissero: «Hanno ucciso due dei nostri!». «Dove?». Gli risposero: «Acca Larentia». E allora Stefano decise di andare, con la Cinquecento di uno dei camerati. Dopo un’ora il suo volto era tra le mani della Mambro. Durante una trasmissione, molti anni più tardi, Giovanni Minoli chiese alla Mambro: «Che colore associa, lei, agli anni di piombo?». E lei, senza esitare: «L’azzurro. Perché è il colore degli occhi di Stefano che si chiudono davanti ai miei».
Oggi, dopo un terzo di secolo, c’è ancora qualcuno che indaga, che vuole andare fino in fondo. È che la Strage di Acca Larentia fu molte cose insieme. Il punto di non ritorno per l’antifascismo militante armato, che diventava Brigatismo. Fu l’atto di nascita ufficiale del Nar, dopo tre giorni di guerriglia per le strade. E fu anche la fine della collateralità fra la destra e le forze dell’ordine: «Celerini assassini!». La Mambro era figlia di un poliziotto, e questa è un’ennesima prova che la storia è complessa. Uno dei padri dei tre ragazzi morì suicida. Un altro di dolore. Il padre di Bigonzetti era iscritto alla Cgil. La madre di Recchioni era di sinistra, il fratello di Stefano di Lotta continua. Massimo e Stefano avevano litigato, e si erano rappacificati. Massimo disse all’Espresso: «Mi si è fermato il cuore, non sono più lo stesso». Sembrava un’Italia divisa da un odio «etnico», era un’Italia complessa, allora come oggi. Ci abbiamo messo trent’anni per chiudere la guerra, e capire come estinguere le radici della rabbia.
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