Roma – Insomma, da ieri ci sono almeno tre nuove notizie, a sinistra. La prima, già nell’aria da mesi, è che la nascente «Cosa rossa» sta saltando per aria prima ancora di essere partorita. La seconda, è che salta perché il Pdci di Oliviero Diliberto si smarca dagli alleati dell’area radicale. La terza – e questa fra le tre è la più preoccupante per Palazzo Chigi – è che la rottura avviene perché il sostegno al governo, dopo le scelte di Romano Prodi, diventa sempre più difficile per l’elettorato neocomunista.
Ma ieri tutto questo era accelerato da una successione di eventi che hanno reso tutto il processo ancora più incontrollato. Che tra i leader della sinistra radicale tiri una brutta aria, e che la rottura sia tale da non salvare nemmeno le convenienze, per esempio, si capisce «plasticamente» a metà pomeriggio. Non sono ancora le cinque, la riunione (programmata da lungo tempo) è appena iniziata, quando nello stupore dei cronisti la porta giù si riapre. Sono passati pochissimi minuti, e Oliviero Diliberto già se ne va: «L’incontro è stato interrotto», spiega sibillino. E subito dopo aggiunge: «I summit non servono – osserva il leader del Pdci – come abbiamo detto, noi valuteremo caso per caso. Vogliamo vedere i fatti, ecco perché credo che il governo debba presentare un disegno di legge che contenga i temi tolti dal maxi-emendamento».
Insomma, un annuncio che tradotto in soldoni significa due cose: il Pdci da questo momento in poi ritiene di tenere una politica di «mani libere», sia rispetto al governo che rispetto ai futuri alleati della Cosa rossa. E ne è così consapevole, Diliberto che non nasconde: «Io mi auguro che si arrivi all’unità, certo non è semplice riuscire a trovare una quadra». In realtà la quadra era saltata già in aula, dove il Pdci, abilissimo da sempre a dosare il mordi e fuggi della sua politica corsara, aveva già dato un segnale politico inequivocabile: proprio nel voto sul disegno di legge sul welfare, 14 deputati del Pdci – solo poco prima del vertice – aveva deciso di non partecipare alla votazione. Il fatto che solo Diliberto e il capogruppo Pino Sgobio – per salvare le forme – avessero votato a favore del ddl, poco cambiava della sostanza. E infatti Rifondazione e Pdci, già in Transatlantico, sentendosi scavalcati e «scaricati» esplodevano: «Quello del Pdci è un gesto irresponsabile».
Per non dire di Fabio Mussi, il leader della Cosa rossa che in questo momento è posizionato più «a destra» di tutti gli altri: «Tutti insieme abbiamo fatto una scelta di responsabilità – osserva il leader della Sd – a gennaio serve una verifica e va ridefinita l’agenda perché deve essere chiaro cosa fare nel 2008». Anche qui la traduzione dal politichese è facile: lo «strappo» di Diliberto potrebbe mettere in forse la partecipazione del Pdci fin dall’assemblea che era già programmata per l’8 dicembre.
Non salire sul treno ora vorrebbe dire non poterci tornare a bordo nemmeno nel 2008. Il che, in caso di una legge elettorale con sbarramento (in chiaro o di fatto) potrebbe tagliare il Pdci fuori dal parlamento. Mentre in caso che la riforma non si facesse, invece, farebbe del partito di Diliberto e Rizzo un «pericoloso» concorrente elettorale. «La mossa del Pdci mi è sembrata una sciocchezza», sbottava uno dei sottosegretari di Rifondazione, Alfonso Gianni. E i tre segretari superstiti – Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi – si univano in un comunicato di censura molto duro: «È un gesto sleale». Ecco perché ieri persino Fausto Bertinotti, rompendo lo standard di prudenza che gli impone il suo ruolo di presidente della Camera, spendeva parole inequivocabili sul caso: «L’unità a sinistra è per tutte le forze di sinistra una necessità esistenziale di questa fase storica, per cui non può subire alcuna alterazione dalle contingenze o da qualsiasi elemento di turbativa piccola o grande che sia».
Ed ecco perché, per gli stessi motivi, Palazzo Chigi provava a gettare acqua sul fuoco con un comunicato iper-minimizzante: «Non soffermiamoci su singoli aspetti che non vanno considerati prioritari», riferivano fonti ufficiose della presidenza alle agenzie. «La Cosa rossa sta male», commentava un dirigete veltroniano del Pd come Peppino Caldarola. E Severino Galante, coordinatore della segreteria del Pdci rincarava la dose: «Siamo un partito sovrano – attaccava – bisognerà che Giordano, Mussi e Pecoraro se ne facciano ragione». E Marco Rizzo, ancora più duro: «L’unica slealtà che conosco è tradire le ragioni dei lavoratori». E l’eurodeputato rincara la dose: «A Bruxelles si sono persino astenuti sulla flex-security! (l’euroflessibilità, ndr). Ormai Rifondazione si accoda alla Sinistra democratica». Insomma, se salta la Cosa Rossa, anche il governo rischia.
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