Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Quelli che… annunciano «via dall’Italia»

LUCA TELESE

 

Adesso, da quel fatato mondo di indiscrezioni che sempre turbina intorno a Massimo D’Alema, arriva l’ultimo annuncio, la voce che il ministro degli Esteri sarebbe tentato di lasciare l’Italia per concentrarsi su un incarico europeo, un alto Commissariato, un’euro-poltronissima, magari la plancia di controllo che oggi occupa lo spagnolo Xavier Solana, quella carica che tutti abbreviano con un nomignolo che sembra uno scherzo – «Mister Pesc» – e che invece indica uno di quei meravigliosi incarichi intergovernativi in cui si piazzano i grandi ripescati delle classi dirigenti comunitarie del vecchio continente. Ovviamente la cosa non stupisce, perché sempre D’Alema ci ha abituato a questo fantastico gioco del pendolo per cui tutto quello che lui fa diventa centrale, e tutto quello che lui non fa diventa irrilevante, come la Gloria Swanson di Viale del tramonto, la star in decadenza ma irriducibile che spiegava rapita all’intervistatore William Holden: «Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo».
E così, nella sua ultima apparizione a Ballarò, mentre annunciava con distacco quasi olimpico che Veltroni era «Un buon candidato per la leadership del Partito democratico» (anche se a noi invece piace ricordare ancora la battuta dalemissima che rifilò a Massimo Giannini solo due settimane prima: «Veltroni candidato? Non finché sono vivo io»), anche mentre con la morte in cuore lanciava Veltroni, insomma, D’Alema spiegava: «Non mi interesso molto della politica italiana, sa, io ora mi occupo di altre cose». Mitica iperbole minimale. Lui fa «altre cose»: decanta i risultati della conferenza di Roma (ovviamente organizzata da lui) spiega che «l’Italia oggi conta di più di un anno fa in Europa e nel mondo» (ovvero da quando c’è lui), osserva che «la strategia unilaterale dell’America è in crisi e che l’Europa deve proiettarsi in altre aree del mondo» (ovviamente quando lui sta partendo per il Brasile per firmare accordi con Lula). Certo, noi siamo convinti che in questi slanci il leader máximo sia sincero, e che consideri perfettamente lineare l’aver sostituito alla prima persona singolare «la terza persona continentale» (lui dice «l’Europa vuole» e naturalmente sottointende se stesso).
Ma c’è qualcosa che va raccontato anche oltre la sua persona, in questo costume ormai rituale, in questo singolare slittamento schizofrenico fra il provincialismo e l’esterofilia degli ulivisti italiani, fra il nuovo strapaese, e l’innamoramento per «il Risiko dei poveri», la brama degli incarichi all’estero che assale periodicamente i leader della sinistra italiana. Ogni volta ci dicono che l’Italia a loro sta stretta, e sono pronti con le valigie in mano per traguardi più alti. Veltroni ci ha raccontato per anni che se fosse stato rieletto sindaco di Roma avrebbe chiuso la sua carriera politica e sarebbe andato in Africa, «ci sono altri luoghi che mi attendono, so che qualcuno non mi crederà, ma aspettate altri cinque anni e vedrete» (infatti si è visto). Emma Bonino fu un egregio commissario Ue, si gettava persino con i giubbotti salvavita dagli elicotteri, ma nel 1999 usò l’euro-carisma come trampolino per la nota campagna di candidatura alla presidenza della Repubblica (che a sua volta servì da battistrada per le sue liste alle Europee). E lo stesso D’Alema, alla fine del congresso della Quercia di Pesaro fece sapere che avrebbe preso «un periodo sabbatico di due anni» per insegnare in America (allora il modello era Giuliano Amato): dopo una settimana i due anni si erano ridotti a uno, alla fine dell’estate si capì che il ciclo di lezioni durava due settimane (ed era una specie di vacanza studio, come quella degli universitari che fanno l’Erasmus). C’era poi la candidatura degli «euro-indignati». Alti proclami ci avevano annunciato partenze imminenti. Franco Battiato avrebbe lasciato con la morte nel cuore la sua Catania se avesse vinto Scapagnini, splendido esempio di intransigenza del maestro che ci spiegava «Com’è difficile trovare/ l’alba dentro l’imbrunire», e che ci illuminava su come si dovesse cercare «il centro di gravità permamente». Scapagnini però vinse contro Enzo Bianco, e Battiato, per una volta privo di «centro», continuò le sue ricerche sapienziali nelle albe della Trinacria. Vincenzo Consolo scelse un’occasione più aulica, e nel 1994 spiegò con pari solennità e un piglio di furia etica, che se avesse vinto Berlusconi anche lui sarebbe espatriato (probabilmente a Parigi dov’era già di casa). Però sfortuna volle che Berlusconi vinse davvero, e il grande letterato, dal ruolo di aspirante migrante si acconciò a quello di vate congressuale, portando i suoi saluti nei congressi dei Ds (lo ha fatto solo pochi mesi fa nella italianissima Firenze). Umberto Eco era già sul piede dell’uscio, anche lui a causa del Cavaliere, ma le prenotazioni librarie del suo ultimo volume forse lo convinsero a restare (Il passo del gambero, titolo perfetto). Ed è davvero incredibile che nessuno riesca a superare questo cliché che ci vuole sempre e comunque «esuli», «latitanti», o aspiranti «profeti» (extra patriam, come nelle sentenze latine), ma poi terribilmente abbarbicati alle poltrone locali, sempre quelli di «Sì Pariggie avisse lù mèere/ sarebbe ’na piccola Bère». Cittadini del mondo mai. A Parigi effettivamente ci si va, ma solo per i week end, si va in Europa, e si sognano le Euro-poltronissime, ma solo per meditare rincorse che possano produrre italo-poltroncine. Questi leader e questi intellettuali con il pallino dell’addio-paese-che-non-mi-meriti si credono statisti o esteti del beau geste, si sognano montecristi (nel senso del Conte), e finiscono per ridursi a yo-yo dell’andata e ritorno low cost. Indignazione Ryan air. Romano Prodi ha passato cinque anni a cercare di convincerci che il processo di allargamento dell’Unione da lui guidato rinverdiva i fasti di Carlo Magno, e che solo infilare il naso nelle beghe di casa lo disgustava. Tommaso Padoa-Schioppa si era così «eurocratizzato» che se avesse incontrato il se stesso di oggi – impegnato a trattare affannosamente «scalini» e «conticini» con sindacalisti all’amatriciana – lo avrebbe fulminato con uno sguardo di disprezzo. Mario Monti è stato una sfinge impenetrabile finché ha vissuto a Bruxelles, appena rimesso piede in Italia diventò la spalla di D’Alema nelle feste dell’Unità. Tutti riserve della Repubblica che non li merita. Dietro ognuno di questi statisti planetari si nasconde un sogno di revanche strapaesano, e come sarebbe bello se per una volta, senza dir nulla, qualcuno partisse davvero, come hanno fatto e fanno i grandi italiani di ogni tempo, i Giuseppe Garibaldi dei «due mondi» (tutti quelli disponibili all’epoca), gli Arturo Toscanini (uno che oggi, a 50 anni dalla morte viene festeggiato come figlio prediletto in America e addirittura come padre fondatore in Israele!), i Renzo Piano che costruiscono molto più all’estero che in Italia.


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