di Luca Telese
Alla fine, dunque, anche da sinistra, qualcuno ha pronunciato la fatidica locuzione: «C’è una questione morale». E questo qualcuno non è un personaggio di seconda fila, non è qualche centrista border-line e non è nemmeno qualche provocatore del centrodestra, ma il segretario di Rifondazione, Franco Giordano. E la sua presa d’atto – a sinistra c’è una questione morale -, arriva all’apice di un fiume in piena, dopo che decine di dirigenti della sinistra radicale di diversa collocazione negli scorsi giorni avevano detto più o meno lo stesso concetto, anche senza arrivare all’eresia di quella celebre locuzione introdotta nella politica da Enrico Berlinguer.
Solo due giorni fa Pierpaolo Cento, Cesare Salvi, Giovanni Russo Spena e un ex che ha lasciato di recente la casa della Quercia come Pietro Folena avevano rivendicato il loro dissenso dal caso Unipol. Ma adesso, per la prima volta, un leader associa al gruppo dirigente dei Ds la parola con cui il gruppo dirigente del Pci bollava con spregio i propri avversari moralmente inaffidabili. È stata la questione morale un mito «lungo» della sinistra, Berlinguer ne parlò in tutti i discorsi politici importanti del suo ultimo anno di vita e in una celebre intervista a Eugenio Scalfari in cui diceva: «I partiti non possono occupare l’economia, la finanza, e interamente le istituzioni». Quando per la prima volta una giunta di centrosinistra fu lambita dall’odore delle tangenti, con il noto scandalo Zampini, il sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, fece un punto di battaglia politica l’aver rotto la solidarietà con gli alleati quando, a un imprenditore che lo informava dei rapporti «poco leciti intrapresi con un suo assessore», rispose gelido: «Vada dal magistrato».
Come andò a finire si sa, ce lo ha raccontato mille volte lo stesso Novelli. «Venne Bettino Craxi in pubblica piazza, e chiese la mia testa». La ebbe. Ma la questione morale era anche questo per la sinistra, sapere che si poteva pagare qualunque prezzo, ma che quella diversità era l’elemento più importante della propria identità. I primi scricchiolii iniziarono nell’era del Pds, e diventarono improvvisamente uno schianto quando la seconda fase di Tangentopoli portò alla luce che perfino qualche dirigente della Quercia aveva maneggiato denari di provenienza illecita e fondi provenienti dagli imprenditori. Alcuni venivano dall’affare della Metropolitana milanese, e andarono a finanziare esponenti della cosiddetta ala «migliorista» meneghina, altri passarono – con incredibile e indicibile stupore degli iscritti – perfino per le mani del segretario cittadino Cappellini che, durante gli interrogatori, a chi gli chiedeva come li avesse contabilizzati, esclamò affranto: «Li ho gettati nel calderone delle feste dell’unità».
Lo scandalo dei militanti fu enorme, ci furono moti di contestazione e di rabbia, Achille Occhetto, che allora era segretario, dovette inventarsi quella che lui stesso chiamò «la seconda Bolognina». Un discorso sulla questione morale, per l’appunto, oggi dimenticato, in cui Akel diceva: «Qualcuno di noi ha abbassato la guardia, non potrà accadere mai più». Mai dire mai, perché proprio un anno fa i Ds si trovavano impelagati nella vischiosa vicenda delle intercettazioni, i suoi dirigenti cercavano di proteggersi con lo scudo dell’immunità parlamentare – che prevede la segretazione delle telefonate degli eletti – ed arrivarono perfino a negare l’esistenza di una telefonata del loro segretario, finché non fu questo stesso giornale a rivelarne il contenuto. «Abbiamo una banca!», gridava Piero Fassino felice come un bambino al telefono con l’amministratore dell’Unipol Giovanni Consorte. Per un intero anno, i leader dei ds hanno vissuto con schizofrenia e sotto il peso di una spada di Damocle. La schizofrenia li aveva portati dapprima a cauti sdoganamenti dei cosiddetti «furbetti del quartierino», come Stefano Ricucci.
Poi, una volta che questo e i suoi colleghi erano precipitati nel tritacarne dell’inchiesta, a negare qualsiasi rapporto con loro; infine, nelle ultime settimane, a difendersi malamente una volta che il contenuto dei loro colloqui con Ricucci e gli altri inquisiti (questi sì, intercettabili) aveva fatto emergere un sottobosco di relazioni, di rapporti e di stili comunicativi che ben poco avevano a che vedere con quella morale antica che era il fondamento della «diversità comunista». Da quattro giorni, la parola d’ordine dei dirigenti della Quercia è «non c’è nulla di penalmente rilevante», con un’espressione che, già detta così, è incomprensibile dalla base. Come se per anni le condanne politiche che il partito aveva emanato non fossero per l’appunto civili e morali. E poi, a partire da una recente intervista di Massimo D’Alema, la parola d’ordine difensiva è diventata: «Nel Paese c’è il rischio che prevalga l’antipolitica», attaccando addirittura quella magistratura da sempre punto di rifermento per i ds, attacco che sempre Giordano non ha esitato a criticare duramente. D’Alema è arrivato perfino a dire che il «facci sognare» con cui si congedava da Consorte alla vigilia della scalata, è «una frase di spirito sarcastico che uso anche allo stadio».
E si dimenticava che per il popolo della sinistra è proprio questa la «nuova» questione morale, il fatto imperdonabile, l’idea, cioè, che i loro dirigenti di partito facessero il tifo per una cordata economica, facessero accordi con esponenti legati al centrodestra per controllare delle banche, incontrassero e chiacchierassero amabilmente con immobiliaristi e faccendieri per acquisire pacchetti di controllo di società o di holding.
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