Luca Telese
È uno dei più importanti intellettuali della sinistra italiana, uno dei più visibili, dei più amati. Ma non è più iscritto alla Quercia. E nemmeno muore di entusiasmo per il Partito democratico: «Non li capisco, non parlano di me, è un dibattito criptato». Michele Serra ha una delle rubriche più lette su La Repubblica, scrive libri che scalano le classifiche, è autore del programma più «cool» di Raitre (Che tempo che fa di Fabio Fazio), distilla libretti d’opera, saggi e partiture comiche, è autore di stelle della satira come Luciana Littizzetto e Antonio Albanese. Eppure, nel soleggiato salone della sua casa alla periferia di Bologna, dice: «Non parteciperò al congresso dei Ds. Non ho più la tessera da anni. Avevo annunciato di non rinnovarla, un secolo fa, quando fecero fuori Stefano Rodotà alla presidenza dei Ds per far posto – mi alzo in piedi – a Giorgio Napolitano. È passato più o meno un secolo, non sono stato attraversato da particolari slanci per le sorti della sinistra, ed eccomi qui». Le sue parole, al Botteghino, dovrebbero suonare come un allarme e incontrarlo è il modo migliore per chiudere il viaggio nella sinistra all’ombra delle due torri.
Nel dibattito sulla Svolta del 1989 sei stato protagonista. Oggi non hai ancora scritto una riga sul tema. Perché?
«In quel periodo eravamo tutti immersi nel travaglio della Svolta. Era la nostra vita, carne e sangue del Paese».
Ti schierasti appena due giorni dopo la Bolognina…
«Scrissi un articolo su l’Unità a caldo. Il primo numero di Cuore uscì solo il 4 febbraio del 1991, mentre c’era il congresso della scissione».
Anche nel dramma facevate satira.
«Non abbiamo mai smesso. E non ci siamo mai autocensurati».
Si ricordano titoli memorabili.
«“Cossutta Scudo umano”, per via della guerra in Irak».
Anche quando Rifondazione nacque non foste teneri.
«“Entusiasmo al congresso di Rifondazione per il volo di Gagarin nello spazio”».
Micidiale. Come quello sul povero Lucio Magri.
«“Uniti sci/contro la Dc”?».
Perfido. Eravate accusati di essere «collaterali».
«Una favola. Per “Nattango”, quando dipingemmo il segretario del Pci che ballava con l’organetto di Craxi, successe l’ira di Dio».
Ma oggi sei «demoscettico» o «demo-entusiasta»?
«Oddio, non capisco nemmeno cosa significhi. Leggo i diagrammi delle correnti sui giornali e quasi non li capisco più. Forse è colpa mia».
Non hai partecipato nemmeno ai girotondi.
«Avevo già le prime difficoltà tecniche a capire».
Il festival di Cuore rivaleggiava con quello nazionale de l’Unità.
«Abbiamo avuto tutti, dagli arancioni di Majib Valcarenghi, ad Adriano Sofri, a padre Balducci. Era un laboratorio».
E poi la passione è finita?
«Sono stato preso da un senso di estraneità. La sinistra non parlava più di me».
Eppure sei un militante a vita.
«Mi considero un cittadino addetto ai lavori».
Cos’ha il dibattito dei Ds che non ti attira?
«Sembra rivolto alle necessità professionali – legittime, peraltro – del ceto politico».
È lo stesso ceto politico di cui fai parte tu?
«Ah, certo, non mi tiro fuori, da questo punto di vista sono ceto politico fino al midollo. Un ex funzionario. Ma io negli ultimi dieci anni ho fatto centomila cose diverse, come le persone normali».
E loro?
«Sono sempre uguali a se stessi».
La classe dirigente è sempre nella famiglia dei post-comunisti?
«Non chiedo a nessuno di svendere una tradizione. Ma è anche un problema di famiglia politica. In tutti questi anni uno che viene da fuori si poteva mettere in campo».
C’è la Melandri.
«Serviva un presidente dei Ds estraneo al Pci».
Il Partito democratico come deve essere?
«Dirlo in astratto, è come partecipare a un dibattito fra filatelici».
E come va detto allora?
«Oggi, al centro di tutto, dovrebbero esserci i diritti civili».
Senti che c’è una emergenza?
«Altroché. Per la politica l’opinione dei vescovi dovrebbe essere importante. Ma ininfluente».
E invece?
«Pare che Ruini sia un leader».
Non dovrebbe parlare?
«Ho scritto, non è una provocazione, che si dovrebbe candidare direttamente. Si pesi, e vediamo quanto conta».
È una boutade?
«Mica tanto. Sono disposto ad accettare un partito più blando, diciamo, sulle questioni di classe. Ma determinatissimo sulla modernità».
Rischi un’accusa di zapaterismo.
«La sogno! Per me Zapatero è uno che ha promesso un programma laico, e lo sta realizzando».
Alla fine l’unico che ancora ti convince è Prodi.
«Per me è un punto fermo. E il suo punto di forza è proprio essere fuori dagli apparati. Ho votato Unione per lui».
Di D’Alema che pensi?
«È bravo, autorevole, ha un rapporto fortissimo con la politica. Ed è il suo limite. A volte è prigioniero del suo punto di vista».
Non è che la società civile sia un incanto.
«Sì, ma oggi mi pare meglio di quella politica».
E Rutelli?
«È libero di porsi degli obiettivi etici confessionali. Ma non di cercare di imporli agli altri».
Nei tuoi articoli parli molto di famiglia.
«Sì, forse la sinistra non dovrebbe arroccarsi a difesa di questa istituzione così com’è. Per questo c’è già la destra…».
E poi?
«La famiglia tradizionale non è un Eden. A volte, anzi, è un luogo terribile. Un ex radicale come Rutelli non lo capisce?».
E Fassino?
«Mi pare molto perbene. Ma imprigionato dentro una gabbia autoreferenziale, un processo di ristrutturazione permanente, e forse ormai inutile».
E Veltroni?
«Ha solo cinquant’anni, di questi tempi è un teenager. Pensa che io ho già fatto la prima visita alla prostata, ma in Italia sono un giovane scrittore».
Ti pare un buon leader?
«Se si decide sì. In lui avverto una componente di marketing, a volte. Ma almeno sa che servono ancora passioni».
Dicono che ormai sei un moralista.
«Non lo considero un insulto. Viviamo un periodo di decadenza profonda».
Anche se la sinistra ha vinto?
«Certo. Ha ragione Moretti, Berlusconi ha vinto tanti anni fa».
Con le televisioni?
«È l’uomo che ha sconfitto la vecchia borghesia liberale e la vecchia Italia operaia. Per me – con padre malagodiano e cresciuto nel Pci – è stata una tragedia».
Ma cosa ha capito lui che la sinistra non ha capito?
«Che in questo Paese stavano esplodendo i desideri, i consumi, la spregiudicatezza. La sinistra dovrebbe usare una lingua nuova».
Lavori con le parole, inventa uno slogan al volo.
«Senza pensarci? L’edonismo non reaganiano».
C’è molto poco Marx.
«Oh certo. E molto Carlo Petrini, quello di slow food».
E cosa indica lo slogan?
«Alla difesa dei più deboli, devi aggiungere quella che gli uomini hanno diritto al piacere. E a coniugarlo con il senso del limite».
Non è facile.
«Certo. Ma troveremo un’alternativa al berlusconismo solo se terremo insieme il bisogno di identità, di piacere e di libertà».
(4. Fine)
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