Luca Telese

Il sito web ufficiale del giornalista Luca Telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

IN VISTA DEL PROSSIMO CONGRESSO DS / Inchiesta di Telese a Bologna

Il Partito Democratico che nasce nel gelo (30/01/2007)

Se Bologna è la capitale degli entusiasti del partito democratico, devo confessare che io, questi entusiasti, non li ho trovati. Ti aggiri per giorni fra Case del popolo, sezioni, associazioni, nuove formidabili scuole di partito di ispirazione ulivista (come Ulibò) e in tutti questi luoghi trovi diverse declinazioni di un medesimo sentimento: fatalità perplessa, dissenso rassegnato o entusiasmo scettico. Passioni condizionate, slanci trattenuti, e visto che qui ci sono sia i più grandi sostenitori che i più grandi avversari del progetto, è assolutamente vero che è qui che si decide tutto: il Partito democratico, in Emilia Romagna come in Italia, nasce sotto il segno dell’ossimoro. Tra i Ds, soprattutto nella vecchia base militante, c’è chi accetta il Partito democratico con lo stesso slancio con cui ci si predispone a una otturazione odontoiatrica con escavazione del nervo. Fra i giovani leoni ulivisti si guarda alla fusione Ds-Margherita con lo stesso scetticismo con cui si pensa a un tacchino che prepara la cena di Capodanno: è improbabile, ma speriamo che accada. Fra i dissidenti, raccolti soprattutto intorno alla mozione di Gavino Angius e Mauro Zani (che da queste parti forse sarà più forte del Correntone), si guarda a entrambi gli interlocutori con equanime senso di raccapriccio. La base diessina non ha nessuna passione per il progetto, ma conserva ancora un senso di fiducia nei propri leader, la sempiterna e brizzolata famiglia dei cinquanta-sessantenni postcomunisti italiani. I giovani dell’Ulivo, i trenta-quarantenni che sono gli unici veri teorici del partito inteso come novità, hanno scarso trasporto per i leader, di cui conoscono tutti i difetti, ma pensano che il processo messo in moto nel convegno di Orvieto sia l’unico modo per uscire dal busto ortopedico dei vecchi partiti. I dissidenti (di tutte le età) sono convinti che il Partito democratico sarà un’operazione di maquillage dello stesso gruppo dirigente di sempre, che in questo modo perpetuerà il suo potere demolendo gli ultimi lasciti di democrazia partecipata. L’eccezione partigiana. Avevano detto, scritto, che nelle regioni rosse c’è una fortissima pressione di base, per fare tutto e subito. Se c’è davvero, io non ne ho trovato traccia. Il fiore all’occhiello del segretario regionale, De Maria, il nome citato in tutte le piazze, è quello di Mario Anderlini, il 92enne ex capo partigiano del Quartiere Reni che ha fondato un nuovo circolo e ripete: «Ho fatto la Resistenza, il Pci, il Pds, adesso voglio fare il Partito democratico!». Ma Anderlini, come uno Stakanov privo di emulatori, è una bellissima figura che eccede la regola. In una delle sezioni più popolose (per numero di iscritti) della città, la Galante-Busi, meglio nota come «Passepartout» hanno convocato uno di questi dibattiti pre-congressuali dal titolo meravigliosamente evocativo, «Verso il Partito democratico» (una direttrice per sostituire un’identità). Si sono ritrovati in quattordici, compreso il segretario di sezione e quello cittadino, Marco Lombardelli. Hanno parlato in cinque, un po’ poco, per evocare l’ingombrantissimo mito partecipativo della base emiliana. Gioventù cammellata. Così venerdì scorso è calato sulla città il leader dei Ds Piero Fassino, che per raggiungere il quorum nazionale ufficioso del 70 per cento di consensi in Italia, qui (dove sono concentrati un iscritto su tre) deve fare cappotto. Lo hanno portato al «Candilejas», una delle Case del popolo storiche della periferia, dietro la stazione, verso la Bolognina, in un incontro preparato con un mese d’anticipo per celebrare pubblicamente l’endorsement di Sergio Cofferati. La sala era strapiena, e c’erano trenta posti con un cartello «occupato», in prima fila. Occupato da chi? Dieci minuti prima dell’inizio è arrivata – cammellata con tempismo scientifico – una pattuglia di ragazzi della Sinistra giovanile. Una coreografia perfetta che ha permesso a De Maria di proclamare con orgoglio di fronte a Fassino: «E io, che mi sono iscritto alla Fgci nel 1984, sono orgoglioso di vedere in prima fila, i ragazzi della Sinistra giovanile…». (Ovvio che li vedeva, ce li aveva messi lui). Ma la liturgia del partitone è così affezionata alla retorica giovanilistica, alla figura metamorfica del «pioniere» e al rito battesimale del nuovo che dà la mano al vecchio, che la trovata è piaciuta assai: una sala di sessanta-ottantenni che parevano riprodotti con lo stampo, ha applaudito convinta, rassicurata dall’estetica Dorian Gray dosata con oculatezza dai dirigenti diessini. La passione resiste. Parliamo adesso di loro, di lui, dell’homo diessino emiliano, insomma. L’invecchiamento e l’eroico sentimento di affezione alla politica degli ex iscritti del Pci-Pds-Ds sono un fenomeno tanto straordinario quanto unico al mondo. Giri tra le file di sedie gremite dalle teste incanutite e li vedi tutti con l’Unità in mano, la pagina piegata sulla rubrica di Marco Travaglio o su quella delle lettere, gli articoli sottolineati a matita, e magari ritagliati a futura memoria. È una generazione cresciuta nel Pci, partita proletaria nel 1945, e arrivata borghese ai giorni nostri: gente operosa, onesta, ma anche terribilmente perplessa. Militanti come Franca Lippi, parrucchiera, che sospira: «Quando ho saputo che c’erano Fassino e Cofferati ho deciso di saltare la cena, ho chiuso bottega, sono corsa direttamente qui digiuna». Poi, scuotendo la testa: «A me questa cosa del Partito democratico non mi convince per nulla. Bah! Sono contraria. Ma – sospiro – mi adeguerò». Gente come Francesca Buttiari, camiciaia, partita come sartina nel 1945 per arrivare a costituire una piccola impresa con 15 dipendenti, una che racconta orgogliosa: «Mio figlio è cresciuto dormendo nei carrioli delle camicie. Un giorno gli chiedo: “Come mi vedi?” E lui: “Sempre a lavorare, mamma”». Legge e ordine. Gente che a Bologna abita nelle case coloniche, ha ancora l’orto e il pollaio, e che quando Cofferati emette le ordinanze contro i tiratardi batte le mani (anche se a chiunque venga da fuori Bologna pare sempre la Svizzera). Eppure anche Francesca, che guarda tutti i talk show e legge quattro giornali (compreso questo) un frammento di identità se lo tiene stretto: «A me non mi convincono mica. Se questa roba passa davvero, io me ne vado al Pdci, come ha già fatto mio figlio». Il marito di Francesca, Pierino Montanari, era membro dell’Accademia Ottocento, quella nata per tutelare uno dei più antichi giochi di carte bolognesi. Prima si vedevano al Cassero, poi al ristorante Vito, adesso non giocano quasi più, perché la città di oggi non è più quella di Dalla, dove «nel centro di Bologna/ non si perde neanche un bambino». Adesso non si tira più fino a tardi sotto i portici e molte Case del popolo la sera chiudono presto. Boccette e ballo liscio. Vai in un giorno qualsiasi alla sala Sirenella, a via San Donato, e scopri che qui non si dibatte più, la cosa che conta davvero è il ballo liscio. C’è un signore al guardaroba che del congresso, dice, «me ne frego», un altro che è scettico, uno che non rinnova la tessera da tre anni. Gratta sotto il nucleo degli attivisti inossidabili con la testa bianca, e scopri che qui c’è un pezzo di società che prima era nell’Arci perché era comunista, che ora è nell’Arci solo perché si balla il liscio. Bussa per esempio ai vetri appannati del circolo Spartaco, a San Vitale, un tempo sede di dibattiti infuocati fra chi era anarchico e chi era togliattiano prima, e berlingueriano poi, e scopri che il locale è ancora affollato. Ma solo per un torneo di boccette. «Qui – dice il barista Luca – di politica non si parla più». C’è questa scena che pare una liturgia: le maglie nere dei pensionati dello «Spartaco», quelle rosse degli sfidanti dell’«Arci San Lazzaro», tutti si muovono intorno al tavolo, tutti gli occhi corrono dietro le bocce, e persino le imprecazioni sono trattenute, controllate, sta succedendo un pandemonio perché quello della San Lazzaro ha bocciato col suo pallino, ma pare un film muto: l’unico rumore è il cigolio del segnapunti elettronico, «Bip-Bip» (e lo Spartaco vince). Ti dice Claudio, orgogliosissimo ex operaio dell’Acma, macchine automatiche: «Qui ci siamo addormentati la prima volta nel 1989, ancora marxisti, e ci siamo svegliati due anni dopo, liberisti. Adesso c’è chi ha brutti incubi, chi dorme poco, e chi non si vuole svegliare più, per paura di scoprire che è di nuovo cambiato tutto». Compagne badanti. Bologna è anche questo, una città di ex ragazzi che sognavano perché c’era un partito-famiglia che glielo permetteva, perché c’era un partito-famiglia che bene o male pensava a tutto. Adesso è una metropoli di 372mila abitanti, 90mila studenti (100mila con le sedi decentrate) di cui 40mila fuorisede. Oltre 130mila sono anziani, ma entro il 2018 saranno diecimila di più: una città vecchia, in cui l’unico processo veloce è l’invecchiamento. Adesso anche il bando del Comune per la casa prevede uno spazio della modulistica e una porzione di metratura a carico, per la figura della «badante». E la mitica «badante ucraina» è anche il cavallo di battaglia del compagno «Stellarossa», il prototipo del comunista bolognese incarnato da Vito, il comico più popolare della città. Quello che esclama: «Io non ci sto che una compagna dell’Est venga a pulire il culo a un vecchio capitalista bolognese!». E quando lo dice c’è chi ride e chi ha gli occhi velati di commozione, perché la città del partito-famiglia che ti faceva sognare di aver costruito il socialismo in terra, oggi è la città degli anziani con la badante. Che dormono male, non sognano più, che da tempo sono senza famiglia. E che adesso, molto probabilmente, si ritroveranno anche senza partito.

 

Quell’Emilia che sogna lo sgambetto a Fassino (31/01/2007)

 

Avvertenza per i non emiliani: la parola chiave di questo articolo è una voce dialettale: Dargliela su. Un tempo era impronunciabile in qualsiasi idioma. Ma ora nei Ds c’è anche chi vuol dargliela, andar via, mollare la tessera. Molti tra loro trovano rifugio nella «terza mozione», quella di chi «è molto»: molto riformista, molto scettico o molto arrabbiato. Sarà sicuramente sconfitta. Ma sarà sicuramente decisiva. Ecco perché: non è contraria al Partito democratico, ma a come si sta facendo il Partito democratico. Il che paradossalmente la rende più insidiosa per Piero Fassino di quella della sinistra. Ed è molto forte in Emilia Romagna, perché oltre a Gavino Angius e Alberto Nigra, oltre a due nomi dello spessore di Gianfranco Pasquino e Franco Grillini, è firmata da uno dei dirigenti storicamente più prestigiosi dei Ds sotto le due torri. Ovvero da Mauro Zani, l’uomo che fino a un mese fa era sempre in maggioranza (anche se non era d’accordo). In fondo il calcolo è semplice: la sinistra di Fabio Mussi sta fra il 20 e il30% (salvo sorprese). «Se la “terza mozione” supera il 5% – spiega Pasquino semplificando – Fassino non raggiunge il 70% e per lui sono guai». Se arrivi a Bologna e riesci a imbucarti nella prima riunione organizzativa della «Terza » (spontanea, senza rete o filtri) tra confessioni e sfoghi, ferocissime analisi, capisci che sotto l’apparente quiete, questa svolta turba i Ds in profondità. Donne contro (Rutelli). Per esempio le donne. In Emilia, il 60 per cento di loro lavora (soprattutto le iscritte Ds). Nella città in cui ci sono più tassiste, netturbine e autiste, federarsi al partito di Francesco Rutelli e Franca Binetti è come andare a un funerale. Dice un iscritto della casa del popolo Candilejas, Franco: «Vado a sentire Fassino… Parla due ore,quasi mi convince. Ma ha discusso venti minuti dei socialisti portoghesi e non ha mai citato Rutelli!». Già. Nella riunione con Zani, la settimana scorsa, nella sede della Regione – unica convocazione un tam tam di telefonate-la prima ad arrabbiarsi è la compagna Ercolini. Quarantenne, grintosa e taillerata d’assalto che sbotta: «L’accordo Mussi- Fassino sul voto segreto è da tagliagole! Anche stavolta – si lamenta- emerge un monolite trasversale e generazionale nel gruppo dirigente che va demolito. Altrimenti – conclude – l’unica è dargliela su» (e una). La compagna Donati: «Compagni, diciamola verità! Sono sconfortata dal conformismo di tanti compagni, mi fa paura. Vado in sezione, e il segretario mi fa: “Non capisco, ma sono con Fassino”. Compagni,questo conformismo l’abbiamo costruito noi ma ora ci uccide! Se non lo leggono sull’Unità la mozione Angius- Zani non esiste!». Non morir «democristiani». Il compagno Fanti:«C’era un articolo sul partito democratico di Cuillo (dirigente fassiniano, ndr) sul Riformista. Leggo e rileggo, non capisco. Aria fritta!» (risate). «Pareva Rutelli!» (fischi). «Compagni, qui l’unica argomentazione efficace, anche fra i nostri vecchi: Non voglio morire democristiano (boato). «I pacchi di tessere false della Margherita spaventano. Una testa, un voto – sorride amaro – ma almeno sia una testa viva!» (applausi). Il compagno Piccari, maglione girocollo, accento forte, tono grave: «Il rischio è la fine dei Ds. Il problema non è la scissione, mala diaspora! Vedo tanti compagni tentati di dargliela su» (e due). Teresa, ultima a parlare: «Mi sento violentata dentro, ero pronta a dire: vado via!» (e tre). Gianluca: «Compagno Zani. se non c’eri tu io ero già a casa!»(e quattro). Meraviglioso Massimo Mezzetti, numero due dell’area:«Compagni, ho ripescato, in cima allo scaffale, Un paese normale di D’Alema. Confrontate il testo con quel che ha detto ai segretari di sezione… è esattamente il con-tra-rio!».Poi, ironico:«Fassino scriverà nella mozione che con un piede è nel Pse,e con l’altro nel Palazzo d’Inverno. E intanto il congresso si decide in due settimane». Tutto in una «botta». Già. Perché la macchina organizzativa è micidiale, e fa la differenza. In Emilia (e nel resto d’Italia), i congressi di base decidono i rapporti di forza. Così la scommessa delle minoranze è illustrare la mozione nel maggior numero di sezioni possibile. Conti alla mano, in Emilia, la prima fase congressuale si celebra in meno di un mese, 90 congressi «a botta». Il fattore-tempo gioca per il segretario. Così Zani, Grillini, Mezzetti e Pasquino puntano molto sulle assemblee cittadine. La prima cosa che pensi, in questa fredda serata bolognese, è che gli «zaniani» sono minoranza: la colonna vertebrale è la vecchia area riformista, più intellettuali, dirigenti della ex maggioranza, come Nigra (ex segretario piemontese). Ma proprio per questo possono intercettare un frammento di base che li riconosce e si fida di loro. Fisiognomica del Zani. Per capire le loro potenzialità bisogna studiare lui, il Zani. Ex responsabile organizzazione nazionale ds (oggi eurodeputato), è uno che pare uscito fuori dalla matita di Quino, l’inventore di Mafalda: testa quadra, sopracciglia folte e baffi che sembrano tirati giù con un tratto di carboncino. Anche quando era potente, per i giornali non è mai stato leader. Ma è stimatissimo, rispettato dalla base ancora oggi. È asciutto, antiretorico, a volte persino scostante. Da lui non hai mai dichiarazioni a effetto per i Tg, ma è sentendolo parlare qui che capisci il segreto della sua fortuna: la concretezza emiliana. Esordio spiazzante:«Primo: non possiamo vincere, saremo sconfitti di certo, chiaro?». In sala già non vola una mosca. Sospiro: «Secondo: la nostra è la posizione più scomoda, fra due fuochi, lo sappiamo, no?». Terzo: «Ho parlato di censura. Non a caso. I giornali ci ignorano, e lo faranno ancor di più. Mi spiego?» (fiati sospesi). Poi, con una sfumatura di sorriso e un ruggito di grinta: «Per questo non userò mezze misure. Giocherò all’attacco» (brusio di sollievo in sala). Va giù con l’accetta: «È vero, il tasso di conformismo ha raggiunto livelli insopportabili. È vero, Fassino si inventerà un marchingegno per tenere dentro la Margherita, l’adesione al Pse, ecc. Ma noi possiamo parlare a quei tanti compagni che sono a disagio, e dobbiamo fare una battaglia forte, sull’idea che un partito non si può sciogliere, senza un altro congresso, che nessun partito può nascere da una fusione fredda con Rutelli». Il voto segreto? «Se lo sono scelto loro – ghigno – ora voglio cabine elettorali e urne, rappresentanti, osservatori come fosse l’Onu!». Insomma, Zani parla di identità, di voti, di tessere. Parla alla pancia profonda di questo partito. Questa mozione tiene insieme le lingue più antiche, e le più moderne: dalle sezioni di Zani ai Pacs di Grillini alla politologia arguta di Pasquino. Se il compagno Zani riesce a incanalare rabbia, cuori e teste, al Botteghino son dolori.

 

«Ulibo», dove la sinistra fabbrica le ultime utopie (03/02/2007)

Adesso, nell’Unione, c’è persino chi lo usa come un insulto: «Quello? È un “gazebista”!». Nel vocabolario della lingua che cambia il gazebista è chi sostiene la «democrazia dei gazebo», il principio dell’«elezioni diretta», «il metodo delle primarie». E a lui, solitamente, si oppone chi teme che dietro il «gazebismo» si nasconda lo spettro orrorifico del «partito leggero» e il vituperato partito «americano» (che poi sarebbero il contrario del «partito pesante», «di massa», «popolare e radicato nel sociale», tanto amato dai professionisti della politica e dalla vecchia classe dirigente dei Ds e della Margherita). Sembra una disputa bizantina, invece è il cuore di tutta la questione.Ora: se siete persone normali, di tutto questo, giustamente, non avete capito un tubo. Se invece vi è tutto chiaro, siete già nel pieno del dibattito congressuale che agita Ds e Margherita. Ma se appartenete alla prima categoria e volete fare un altro tentativo di capire l’enigma, seguiteci in questo viaggio nella Bologna che è il vero laboratorio del centrosinistra italiano, e proviamo a dirla così: i «gazebisti» doc sono un gruppo di intellettuali, quasi tutti fra i trenta e i quarant’anni, ulivisti convinti, spesso senza tessera, altrettanto spesso prodiani della Margherita (o magari ds innamorati di Pierluigi Bersani e delle sue liberalizzazioni). Un gruppo che ovviamente è in contatto ideale con il vero giovin signore dell’Ulivo, il più pesante dei sottosegretari di Palazzo Chigi, Enrico Letta. Ma se li devi riassumere in una immagine e in due volti, se li devi chiudere in un tipo antropologico e in una parola, vi bastino questi due nomi e un luogo: Filippo Andreatta, Salvatore Vassallo, e la loro creatura, «Ulibò». La Frattocchie del III millennio. «Ulibo» è la prima scuola quadri della seconda Repubblica. Scuola e professori, non certo per un caso, sono tutti e tre radicati all’ombra delle due torri fra i discepoli del presidente del Consiglio e tra gli eredi della sua articolazione culturale, Il Mulino. E poi «Ulibo» è qualcosa di più di una sede, una metafora bella e impossibile di come potrebbe essere (e non è) la politica italiana. Immaginate una scuola quadri che sta in un posto a metà strada fra il falansterio ottocentesco e la galleria Guggenheim, un museo privato a cielo aperto, messo a disposizione da un misterioso prodiano (preferisce restare anonimo) che affitta a prezzo politico, ai giovani ulivisti, il suo eremo e il parco da favola che lo circonda. Una collina verde «arredata» con qualche milione di euro di meraviglie artistiche, Manzù, Messina e Minguzzi (tanto per dare un’idea). Nel prato che circonda la scuola c’è una costellazione di sculture postmoderne che pare una «piccola Stonehenge», e dentro, tra un plesso antichissimo, e uno nuovissimo, una pinacoteca che mette insieme tre secoli di artisti, soggetti figurativi, opere astratte, classicismo e avanguardie. Le lezioni su Alexis de Tocqueville, la forma partito e il dibattito sulle cellule staminali, insomma, si fanno nella sala grande dell’unico museo italiano che, come ricorda meticoloso Andreatta, «non usufruisce di nemmeno una lira di finanziamenti pubblici». Ecco, se avete immaginato tutto questo siete entrati anche voi sul suolo di «Cà la Ghironda», a pochi minuti di distanza da Bologna, a un paio di secoli dal dibattito dell’Unione. Teste d’uovo uliviste. A Roma la coalizione si incaglia sulla finanziaria e sui veti incrociati. Litiga sui pacs sì-pacs no, qui ogni weekend arrivano 58 discepoli prescelti con discrezione e cura, studenti dai venti ai sessant’anni (più di un terzo però sono della generazione chiave 30-35 anni), studenti autofinanziati che pagano una retta politica di 450 euro. Insomma, le future teste d’uovo democratiche del terzo millennio. Ad accogliergli trovano Paola Diana – sorriso solare, grande spirito organizzativo e sguardo birichino, master in Scienze politiche – una che non a caso si è fatta le ossa nella Fabbrica di Prodi, e che tra Andreatta e Vassallo, fa la dama, pare Jeanne Moreau in Jules et Jim di Truffaut. È lei che tiene le fila dell’organizzazione (evidentemente serviva un po’ di concretezza). Andreatta e Vassallo sono due che tra non molto ritroveremo alla guida di qualche partito o di qualche istituzione: insegnano tutti e due a Forlì, il primo è il brillante erede di Beniamino, padre di fondatore del primo Ulivo, scrive per il Corriere della sera, è studioso di politica estera, un convinto sostenitore delle primarie, due anni fa era stato persino indicato come possibile candidato sindaco di Bologna. Un enfant gaté che non si dà nessuna posa, e che gira con la barba lunga e guida una utilitaria scassata. Il secondo corre la mattina, indossa maglioncini attillati da campus universitario americano, coltiva il fitness correndo tutti i giorni, ha un’insospettabile passione per Carmen Consoli (al punto da sincronizzare il suo seminario a «Ulibo» con il concerto bolognese della cantautrice!) è il discepolo ideale di Arturo Parisi, l’uomo che da sempre è cervello e braccio armato del prodismo reale. «Ma chi è Vassallo?». Vassallo si è fatto largo con un primo colpo grosso, il giorno in cui è diventato l’estensore materiale del documento organizzativo che ha messo in moto la colossale macchina delle primarie. E soprattutto è quello che a Orvieto ha spiegato dal palco che il nuovo partito non poteva che nascere con la scelta diretta di un leader e di una classe dirigente («ma chi è Vassallo?», chiedeva sarcastico Franco Marini). La leggenda vuole che quando nessuno ancora credeva alla fattibilità delle primarie, Vassallo avesse inviato via email il piano per votare (con i famosi gazebo!) a Prodi. E che quello lo avesse girato ai leader – forward – senza toccare un virgola: «Leggete qui». Vassallo è diventato l’intellettuale insieme più amato (e odiato) quando, sempre a Orvieto ha enunciato lo slogan che oggi risuona più sovversivo, nel cantiere del nuovo partito: «Una testa un voto». Ed è qui che il famoso e un tempo innocuo gazebo, per i «professionisti» della politica, per i dirigenti e i quadri di Ds e Margherita che materialmente costituiranno il partito democratico, per i sostenitori di Massimo D’Alema e Franco Marini insomma, è diventato un vero e proprio spettro. Loro difendono il primato della politica, Vassallo e Andreatta, e tutti i ragazzi di «Ulibo» sono convinti (come spiega il primo) «che il principio dell’elezione diretta mette in discussione il ceto politico autoreferenziale del centrosinistra e la sua tendenza ad autoriprodursi». Loro vogliono il Partito democratico per irrobustire il loro potere, Vassallo e Andreatta per decapitarli (il che non è simpatico). Robespierre pragmatico. Se Vassallo brilla di ardore giacobino, e ha l’asettica ferocia del tecnico che punta al suo obiettivo senza guardare in faccia a nessuno, Andreatta è un riformista pragmatico che sa come far tornare i conti e quadrare gli equilibri: «“Ulibo” – spiega – è pagata con 850 soci sostenitori, la maggior parte via internet. Costa poco, non chiede ai partiti un centesimo, è indipendente, aperta, con cinque cicli all’anno mette insieme più di 300 studenti. Pochi? Sono – sorride – quelli che interessano a noi». Se Vassallo è un Marat del «gazebismo», Andreatta è un Robespierre che sa come governare i processi, e disegnare analisi lucidissime: «Mai come oggi – spiega – tutti i partiti hanno recuperato soldi e potere attraverso finanziamento pubblico e liste bloccate. Mai come oggi aggiunge – tutti i partiti, hanno perso legittimità e radicamento. Noi, nel nostro piccolo, vogliamo fare tutto quel che è possibile per costruire un nuovo Partito democratico che inverta questa tendenza e restituisca la sovranità a militanti ed elettori». Contraddizioni uliviste. Insomma, un bel paradosso: quelli di «Ulibo» sono i giacobini di un partito che ancora non c’è. E sono ovviamente visti con il fumo negli occhi dai gruppi dirigenti dei due partiti che ci sono. Dagli stessi – altro paradosso – che si stanno sciogliendo per costruire il partito che vogliono loro. I gazebisti pensano che il Partito democratico sia una rivoluzione, i partitisti che sia un rinnovamento gattopardistico che cambia tutto per non cambiare nulla. I gazebisti non hanno armate (come il Papa) ma hanno il copyright sulle idee che le muovono. I partitisti hanno quel che resta delle armate, ma poche ragioni per motivarle. Il nuovo Ulivo nasce così: da una parte le idee, dall’altro il potere, e chi vorrà governarlo dovrà per forza fare i conti con i ragazzi giacobini del falansterio di Cà la Ghironda.

 

 (Continua)


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