nostro inviato a Orvieto
E meno male che Walter Veltroni dice: «Il Partito democratico c’è già, esiste già da anni, è ben radicato nelle coscienze degli elettori». Meno male, perché il seminario di Orvieto per la nascita del Partito democratico si chiude con uno strano paradosso. Da un lato una continua esaltazione del nuovo, del partito che sta nascendo, anzi forse è già nato, di una cosa nuova grande e inedita, addirittura di portata europea se non mondiale, per stare alle parole di Romano Prodi, ma intanto nasce come il remake di un vecchio film.
I protagonisti polemici sono ancora una volta Massimo D’Alema e il Professore, e i volti nuovi, le teste pensanti che dovrebbero progettare il nuovo partito sono agnellini di primo pelo appena affacciati alla politica, gente come Valerio Zanone (già segretario del Pli durante i bei tempi del pentapartito), gente come il giovanissimo Giorgio Benvenuto (già segretario della Uil durante i tempi del pentapartito), gente come l’ottantenne Ciriaco De Mita, uno che esordisce dicendo: «I giornali dicono che io sono contrario al nuovo partito. Non è vero. Però non sono nemmeno favorevole».
Meraviglioso. E sembra tutto già visto, c’è il giovane delfino Walter Veltroni (ma quand’è che farà il salto e si candiderà?), c’è il giovane intellettuale ulivista Omar Calabrese che già di autocelebra: «Sono uno dei due papà dell’Ulivo perché ho inventato quel simbolo…».
E sembra davvero un remake del seminario di Gargonza del 1996, subito dopo la vittoria di dieci anni fa, allora si scontrarono coloro che volevano il centrosinistra (col trattino) e che difendevano i partiti (D’Alema) e coloro che volevano l’Ulivo, l’associazione degli elettori, le primarie, la base che decide (Prodi). Ebbene, ieri c’era chi esaltava i gazebo, le primarie, l’Ulivo di base (ancora Prodi) e c’era chi invece difendeva, nel modo in cui era possibile, le identità dei partiti, il socialismo europeo, eccetera (sempre D’Alema).
E allora potresti tranquillamente saltare un’intera giornata di discussione, le battute del sempre caustico Beppe Fioroni, Willer Bordon che dice: «Dobbiamo parlare oggi un linguaggio di verità» (e chiede il Partito democratico come dieci anni fa, ai tempi di Alleanza democratica), e si potrebbe tranquillamente saltare anche l’intervento di Rita Borsellino, questa volta calata nel ruolo di giovane damigella della società civile.
E ovviamente c’è sempre Giuliano Amato, sempre il migliore professionista a contratto (Bettino Craxi) che dice: «A me non interessano i nomi, a me interessa che la mia storia continui» (e cerca così di risolvere la questione dell’identità europea). E c’è infine Castagnetti, l’unico che insieme a D’Alema si oppone esplicitamente al modello di partito disegnato da Salvatore Vassallo, quello che ha fatto arrabbiare i popolari e i diessini. Era divertente ieri, vedere che i De Mita, i Franceschini, i Lusetti, tutti gli ex popolari, spaventati dal «plebiscitarismo» del modello democratico, avevano sulla bocca la famosa frase di Togliatti: «I voti non si contano, si pesano».
E così, alla fine di una serata molto rituale, molto burocratica e molto sbullonata, dopo due interventi praticamente inutili di Francesco Rutelli e di Piero Fassino che, stretti fra la padella e la brace, non avevano quasi più argomenti da sostenere, il vero duello è stato ancora una volta quello fra Prodi e D’Alema. Il presidente dei Ds, ha provato a vellicare dubbi della sua base, e quelli degli scontenti ex democristiani. E così ha riscosso applausi, gridando: «Senza la sezione dei Ds e senza il circolo della Margherita, le primarie non si sarebbero mai potute svolgere!». E ancora: «Non è che per fare il Partito democratico ci si scioglie in un’ora x, si va al gazebo, e così nasce un nuovo partito».
Fra l’altro, anche all’inizio le sue frasi alimentano un piccolo giallo, esordisce dicendo: «Vi chiedo scusa, non è una mia abitudine intervenire in un dibattito che non ho seguito, ma non sarebbe giusto toccare o alimentare equivoci». Quali? Fino alla vigilia, si diceva che non avrebbe parlato.
E così si arriva alle conclusioni di Prodi, anche lui dice che il Partito democratico c’è già e anche lui cerca di superare il problema dell’adesione al socialismo europeo, con l’iperbole: «Siamo noi ad anticipare l’Europa e non viceversa». E poi: «Le primarie non si sarebbero mai potute fare senza l’impulso dei partiti, ma non avrebbero avuto successo se non fossero andate oltre i partiti». E poi aggiunge: «Il Partito democratico dev’essere unitario, e non una federazione. Aperto, ma spinto dal basso, riformatore, ma non moderato».
D’Alema gli aveva rifilato un’altra delle sue stoccate, poco prima: «Non è che si può fare una cosa in cui ci sono solo i cittadini e il leader». Anche lì aveva raccolto grandi applausi, ma poi, la differenza fra il ’96 e oggi, tra Gargonza e Orvieto, è tutta qui. Allora D’Alema aveva un’alternativa di leadership e di progetto (se stesso), adesso non ce l’ha più.
[LuTel]
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