Luca Telese
da Roma
Pensate come sono strane le cose viste dalla tribuna stampa di Montecitorio, nel giorno più lungo e difficile di Romano Prodi in questa legislatura. Il centrodestra ha passato un’estate a discutere se l’opposizione dovesse essere dura o morbida, pregiudiziale o dialogante, ostruzionistica o costruttiva, se le manifestazioni dovessero chiamarsi «girotondo» «moscacieca» e poi… Poi arriva un dibattito sulfureo come questo sul caso Telecom, e il governo si ritrova in diretta televisiva davanti al più compatto schieramento mai visto dalla nascita della Casa delle libertà a oggi, un muro di accuse quasi sorprendentemente unanimi contro il premier: «Mente», «Mente», «Mente», declinato in tutte le lingue politiche dellla coalizione, ma con una varietà di accento in cui era difficile distinguere l’opposizione centrista da quella «aennina». Ecco, guardate Pierferdinando Casini. Inizia a parlare e dice subito: «Io parlo a nome di un partito di opposizione che interpreta il ruolo di opposizione in modo responsabile ma non demagogico…». A sinistra non si fa in tempo a ipotizzare una smarcatura che dopo tre parole arriva l’affondo: «Siamo moderati ma non siamo ingenui! Non intendiamo assistere ad interessanti racconti di favole!». E poi, durissimo sul nodo delle Authority toccato da Prodi: «L’Autorità si difende nella sua indipendenza – dice – mettendola al riparo da vendette legislative».
Visti dall’alto, i tre discorsi centrali dell’opposizione, ieri, equivalevano a una messe di cluster bomb sul bunker di Palazzo Chigi. Prodi è lì, nella trincea del suo banco del governo, un sorriso di porcellana cucito sulle labbra. Ogni tanto borbotta a chi gli è vicino (Vannino Chiti), a un tratto esplode incredulo (e sembra di leggergli sulle labbra – ancora! – «È matto!?»). Ecco, il primo a parlare dei big del centrodestra è Giulio Tremonti: ironico, pungente e martellante, prende di mira Prodi e lo infilza con un piglio schermististico: «Quando il premier parla in Parlamento, deve dire la verità. Lei oggi ha mentito. Ha mentito insieme all’Aula, al Paese e agli italiani». E poi, continuando a toccare con la lama della ferocia: «Nella terza Repubblica francese, nel pieno di un affaire simile – racconta – un uomo di governo si difese dicendo: “Delle due l’una: o sono disonesto o non sono capace”. La risposta per lui fu: “Il cumulo delle cariche non è vietato”. Vale anche per lei!» (i banchi del centrodestra esplodono, risata e applauso).
E poi, sempre più beffardo: «Quello di Rovati era un vasto piano da cui tutti avrebbero guadagnato – aggiunge Tremonti – e a perderci sarebbe stato uno solo. Avrebbero dovuto guadagnarci: la Telecom, ipoteticamente ristrutturata nel suo assetto patrimoniale e finanziario… Le banche creditrici, risolvendo tra l’altro eventuali problemi di ratios (coefficienti patrimoniali ndr) e di Basilea 2… Le Fondazioni, estendendo il loro ruolo nell’economia… Un industriale, forse interessato ai telefonini… La sua ditta politica, con le mani in pasta perché regista della ristrutturazione di un settore-chiave, come quello delle telecomunicazioni». Poi, dopo una pausa teatrale: «A perderci sarebbe stato uno solo: il contribuente italiano!». La più insidiosa articolazione del discorso, per la maggioranza è sui Ds. Sapendo di dire cosa vera, Tremonti ripete che l’errore di Prodi è stato quello di tener fuori dall’operazione la Quercia: «D’Alema – dice Tremonti – ha iniziato le sue vacanze convinto della fusione San Paolo Monte dei Paschi di Siena. Nel durante, ha letto sui giornali la notizia della fusione San Paolo Banca Intesa. Poi ha letto sul giornale anche di Telecom. Che alla Farnesina definirebbero un affare con ritorno politico non multilaterale, ma unilaterale!». Finale quasi professorale: «Vede Presidente – conclude l’ex ministro dell’economia rivolgendosi direttamente a Prodi – il suo non è stato un errore di calcolo economico. È stato un errore di calcolo politico».
Dopo di lui c’è Gianfranco Fini. Quando parla ti accorgi che, per la prima volta da secoli, tiene tra le mani un pugno di foglietti bianchi, un testo scritto. In Transatlantico corre voce che il presidente di An sia stato aiutato da un ghost writer economico, Mario Baldassarri, cervello economico del suo partito. Se fosse così, l’intervento è stato metabolizzato nei dettagli, perché Fini usa il testo solo per controllare una data, un nome, un dato: il suo discorso è una requisitoria pacata ma martellante, che fa esplodere la parte destra dell’emiciclo su di un nome. Quello di Claudio Costamagna, uomo di riferimento del premier che Fini indica come co-estensore della bozza Rovati. Era un nome evocato spesso, in queste ore, ma in bocca ad un leader di opposizione (il primo a rivelare il suo ruolo, su questo giornale, era stato Fabrizio Ravoni ndr). Ma in un’Aula parlamentare quel nome pare un detonatore: è lì che il sorriso di porcellana di Prodi si dilata e si infrange, in una reazione sdegnata. Ma è proprio lì che Fini vuole arrivare «…in realtà il piano Rovati era tutt’altro che artigianale, perché elaborato dagli esperti di Palazzo Chigi e da una nota banca d’affari». Una pausa impercettibile, il tono sale: «Una banca che aveva tra i suo consulenti anche un personaggio, Costamagna, per il quale negli ambienti prodiani si ipotizzava un prestigioso incarico pubblico alla guida, guardacaso!, proprio della Cassa Depositi e Prestiti». La frase è sepolta da un’ovazione, tutto il centrodestra è in piedi ad applaudire (le prime parole di Piero Fassino, dopo questo intervento, saranno di fuoco). Finisce il dibattito con l’intervento, quello del leghista Roberto Cota («Prodi verrebbe condannato anche dalle toghe rosse!»). Silvio Berlusconi attraversa il Transatlantico assediato dai giornalisti, ostenta un sorriso smagliante stampato sul viso. «Lascio che si facciano male da soli – dice tagliente -. Certo, quello che è successo è stato imbarazzante, infantile e ridicolo». Gli chiedono se vede Prodi isolato dopo il dibattito. Stavolta il sorriso si fa smagliante, la battuta parossistica: «Ma erano tutti attorno a lui!». Ecco, appunto.
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