Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Lacrime e dimissioni, Rifondazione nel caos

Lacrime & stampelle. E imprecazioni, e denti stretti, e dissociazioni, e rabbia, e voti in dissenso. Che altro? Ieri alla Camera è andato in onda uno psicodramma collettivo. Rifondazione ha perso pezzi, convinzione, unità registrando fra le sue file quattro voti contrari, una astensione politica e cinque interventi di altrettanti «ribelli» che non si sono assoggettati alla disciplina di partito. Al Senato hanno respinto le dimissioni di Gigi Malabarba, un altro che voterà sicuramente no.
Insomma, un massacro: per tutta la giornata i deputati del gruppo si aggiravano per il Transatlantico senza riuscire a nascondere una sofferenza vera e devastante. Una pagina di passione autentica, certo, ma anche un cortocircuito politico che può avere ripercussioni enormi sulla coalizione e sul partito. Un travaglio che colpiva chi sceglieva di votare no al decreto del governo sulla missione in Afghanistan, ovviamente, ma anche e soprattutto chi sceglieva il sì, con mal di pancia indicibili. Paolo Cacciari che lascia la tessere in Aula, di prima mattina, e annuncia le dimissioni dal gruppo parlamentare è il fulmine che apre la giornata, lo strappo che fa sussultare i vertici del partito, il primo campanello di allarme.
Ma anche, per citare l’immagine che ti resta sul taccuino a fine serata, la deputata di colore Mercedes Frias, una delle più simpatiche della «legione straniera» di Rifondazione (è nata nella Repubblica dominicana) che dopo un brutto infortunio si presenta a votare in stampelle, per spirito di lealtà, e – subito dopo – quasi se ne pente. Se vi foste affacciati in Transatlantico alle otto di sera avreste potuto assistere a un colloquio quasi commovente, quello in cui lei e la collega calabrese Donatella Mungo, sedute su di un divanetto in disparte, si consolavano l’un l’altra, con le lacrime agli occhi. Lacrime silenziose, trattenute con i denti. Per che cosa? Per aver votato sì! È stata una giornata di paradossi rovesciati, in cui chi violava la disciplina di partito sembrava colto da catartica soddisfazione, e chi diceva sì alla missione si portava appresso macigni di disagio indicibile. Sentite la Frias: «Avevo deciso di votare sì, malgrado tutte le ragioni che avevo per dire no, perché non mi andava di fare la bella animella. Non volevo, cioè, trincerarmi dietro il fatto che sono un’indipendente e lasciare che gli altri compagni portassero la croce da soli…». Però…. «Però quando ho ascoltato l’intervento di Fassino sulla crisi in Medio Oriente, ho sentito lo stomaco che mi si rivoltava, ero incredula, mi sono indignata per quelle parole di giustificazione totale per Israele e di sostanziale indifferenza per le sofferenze dei civili in Palestina e Libano». Una pausa, un respiro: «Mi son detta: ma come faccio io a votare insieme a questa gente qua? Cosa c’entro io con questi? Che razza di sinistra sarebbero? Stavolta ho detto sì, ma è l’ultima volta… Perchè piuttosto che mandar giù questi rospi, lo giuro adesso, io fra sei mesi faccio come Paolo, io piuttosto che ritrovarmi in questa situazione mi dimetto».
Gli interventi in dissenso erano cinque. Uno, quello di Matilde Provera, era un sì «a tempo», come una cambiale a stretto giro di posta, girata al governo di Prodi senza fiducia: «Non sono convinta. Dico sì. Ma solo per questa volta». E fra sei mesi, quando si dovrà ritornare in Aula per il rinnovo è già pronta al no. Il no lo hanno già detto ieri, invece, Salvatore Cannavò, Gian Luigi Pegolo e Alberto Burgio (delle due minoranze antibertinottiane), e l’ex disobbediente Francesco Caruso (su cui pure fino a ieri contava la segreteria). E che invece spiegava: «Non capisco lo stupore. La mia elezione la considero un servizio ai movimenti da cui provengo. Non potevo votare sì».
Sì, hanno contato molto, in queste ore, le pressioni dei pacifisti. L’altra immagine che ti resta nel taccuino è quella di Pegolo che punta sulla buvette con il sorriso radioso di uno che si è appena tolto un molare cariato: «Io con la mia coscienza sto a posto, loro facciano quel che vogliono. Ci espelleranno? Sono curioso di capire come lo spiegano alla base, tutti quelli che ho sentito sono d’accordo con me. Non ho fatto altro che votare quello che il partito ha votato per otto volte».
Già, i provvedimenti, le espulsioni. Franco Giordano per ora non ne vuole minacciare. Esce con una nuvola sul volto, un borsone immenso in mano, ma resta rispettoso di tutti, anche di Cacciari: «Un gesto che mi stupisce, perché nessuno glielo chiedeva». È ancora più corrucciato il capogruppo, Gennaro Migliore: «Cosa avrà da ridere Cannavò? Questi cinque interventi, politicamente pianifiati contro la maggioranza, hanno danneggiato il partito». Ma adesso indietro non si torna: il segnale di ieri è che o al Senato si mette la fiducia, o il governo va sotto.

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