Roba da non crederci, «la guerra del tassametro» ha una appendice rilevante anche nei rapporti di forza del centrosinistra. Fatevi una piccola domanda: chi è stato il grande «mediatore» nella trattativa fra i tassisti e il governo? Risposta: il sindaco di Roma, Walter Veltroni. E poi chiedetevi: ma chi diavolo ce lo ha chiamato, Veltroni, a quel tavolo? Romano Prodi, forse? Pierluigi Bersani? Macché: gli stessi tassisti, come racconta orgoglioso Pietro Mancinelli, leader dei ribelli dell’Ugl, il sindacato di destra.
E qui inizia il bello, perché se subito dopo volete divertirvi, andate a vedere chi è il leader dell’Unione più arrabbiato per quell’accordo. Per fare presto ve lo ricordiamo noi. È Francesco Rutelli, leader della Margherita, che ieri avvertiva: «Avrei preferito un formula di maggiore liberalizzazione e la possibilità di creare nuovi servizi per gli utenti, decisamente più flessibili». Non stappa lo champagne, Rutelli, anzi. Un pochino minaccia anche: «Verificheremo attentamente che questo compromesso funzioni. Se il servizio migliorerà, bene, se però i problemi non si risolveranno, bisognerà tornare su soluzioni più coraggiose». Insomma, se tutto va a monte, lui l’aveva detto.
Così non si può non interrogarsi sull’ennesimo paradosso dell’Unione, quello delle amicizie feroci e degli odii solidali, come se l’ossimoro fosse l’unica chiave per spiegare cosa succede in quella coalizione, rapporti tra leader e geometrie umane. Per dire: Prodi prima ha «scelto» il suo ex nemico Massimo D’Alema per il ministero più importante, e poi ha insediato il suo «killer» Franco Marini a Palazzo Madama. Mentre anche Rutelli e Veltroni che in linea teorica dovrebbero andare d’amore e d’accordo, tutti e due protesi verso l’obiettivo comune del grande partito democratico, sembra che in realtà non si possano vedere. Si dirà: cosa conta un piccolo screzio sui tassisti, al cospetto della grandiosità di un progetto politico come l’unione delle sinistre? Col cavolo. Perché i taxi a Roma sono il termometro di ogni amministrazione, un simbolo: furono la Caporetto di Rutelli, e sono il fiore all’occhiello di Veltroni. Fu l’attuale sindaco, infatti a proclamare raggiante: «Bisogna mediare. A Roma ho concordato con i tassisti 450 nuove licenze, con il metodo del dialogo, senza un solo minuto di sciopero!». E ci vuole altrettanto poco, invece, a ricordare la micidiale serrata che invece oppose Rutelli ai tassisti quando in Campidoglio c’era lui. Ma gli esempi si potrebbero sprecare: Rutelli trovò nel sovrintendente Adriano La Regina il più feroce dei nemici, il funzionario che gli bloccava ogni progetto, dal sottopasso di Castel Sant’Angelo, ai parcheggi giubilari, a tutte le opere in cui occorreva scavare almeno un metro di terra. E invece Veltroni con La Regina ci va d’amore e d’accordo: dopo una breve ma intensa luna di miele lo prese addirittura come consulente. Splendida la memorabile incazzatura del leader della Margherita: «Incredibile: a me La Regina non ha concesso nulla, adesso a Veltroni permette anche di parcheggiare i pullman al Circo Massimo!». Per non parlare dei litigi su villa Pamphili, o del siluramento di Goffredo Bettini (amato un tempo da entrambi, sponsorizzato oggi da Walt) al ministero dei Beni culturali.
La verità è che Rutelli e Veltroni incarnano due declinazioni opposte di lessico politico, anche nella prospettiva del partito democratico: a Rutelli piacerebbe essere un piccolo Tony Blair, con i suoi «big talk», i palazzinari e il generone che stravede per lui. Veltroni ha in mente un kennedismo all’amatriciana, un po’ Lorenzo De’ Medici, un po’ Petroselli. Rutelli – da vero «piacione» – ama piacere alla gente che piace, Veltroni vuole piacere a tutti, aderire alla società come ad un guanto, da Nunzio D’Erme ad Alberto Michelini, (il bello è che gli riesce). Alla fine, la verità è che hanno più o meno la stessa età, più o meno lo stesso curriculum, più o meno lo stesso sbocco naturale: la leadership del dopo-Prodi. Qui finiscono le affinità: perché Rutelli viene da una cultura radicale ma si è innamorato in tarda età del partito (il Ppi prima, la Margherita poi). Veltroni invece viene da una cultura di partito, e ha trovato una nuova identità nella coalizione. Entrambi passano da Roma e puntano a conquistare Roma. Il primo con la sua fitta tela di relazioni nella classe dirigente, il secondo con il suo progetto nazionalpopolare, le sue notti bianche, la sua città-evento, quella che Marcello Veneziani per sfottere ha definito: «Romaset».
In un paese normale, due tipi così sono fieri avversari: come Tony Blair e Gordon Brown, come Segolène Royal e François Hollande, come Gerard Schröder e Oscar Lafontaine. Solo nella sinistra italiana i nemici per la pelle fanno conferenze stampa e convegni comuni, combattono spalla a spalla, si applaudono in pubblico e si sfidano sui tassametri. Poi, un bel giorno, tra un sorriso e l’altro si piantano una coltellata nella schiena.
E qui inizia il bello, perché se subito dopo volete divertirvi, andate a vedere chi è il leader dell’Unione più arrabbiato per quell’accordo. Per fare presto ve lo ricordiamo noi. È Francesco Rutelli, leader della Margherita, che ieri avvertiva: «Avrei preferito un formula di maggiore liberalizzazione e la possibilità di creare nuovi servizi per gli utenti, decisamente più flessibili». Non stappa lo champagne, Rutelli, anzi. Un pochino minaccia anche: «Verificheremo attentamente che questo compromesso funzioni. Se il servizio migliorerà, bene, se però i problemi non si risolveranno, bisognerà tornare su soluzioni più coraggiose». Insomma, se tutto va a monte, lui l’aveva detto.
Così non si può non interrogarsi sull’ennesimo paradosso dell’Unione, quello delle amicizie feroci e degli odii solidali, come se l’ossimoro fosse l’unica chiave per spiegare cosa succede in quella coalizione, rapporti tra leader e geometrie umane. Per dire: Prodi prima ha «scelto» il suo ex nemico Massimo D’Alema per il ministero più importante, e poi ha insediato il suo «killer» Franco Marini a Palazzo Madama. Mentre anche Rutelli e Veltroni che in linea teorica dovrebbero andare d’amore e d’accordo, tutti e due protesi verso l’obiettivo comune del grande partito democratico, sembra che in realtà non si possano vedere. Si dirà: cosa conta un piccolo screzio sui tassisti, al cospetto della grandiosità di un progetto politico come l’unione delle sinistre? Col cavolo. Perché i taxi a Roma sono il termometro di ogni amministrazione, un simbolo: furono la Caporetto di Rutelli, e sono il fiore all’occhiello di Veltroni. Fu l’attuale sindaco, infatti a proclamare raggiante: «Bisogna mediare. A Roma ho concordato con i tassisti 450 nuove licenze, con il metodo del dialogo, senza un solo minuto di sciopero!». E ci vuole altrettanto poco, invece, a ricordare la micidiale serrata che invece oppose Rutelli ai tassisti quando in Campidoglio c’era lui. Ma gli esempi si potrebbero sprecare: Rutelli trovò nel sovrintendente Adriano La Regina il più feroce dei nemici, il funzionario che gli bloccava ogni progetto, dal sottopasso di Castel Sant’Angelo, ai parcheggi giubilari, a tutte le opere in cui occorreva scavare almeno un metro di terra. E invece Veltroni con La Regina ci va d’amore e d’accordo: dopo una breve ma intensa luna di miele lo prese addirittura come consulente. Splendida la memorabile incazzatura del leader della Margherita: «Incredibile: a me La Regina non ha concesso nulla, adesso a Veltroni permette anche di parcheggiare i pullman al Circo Massimo!». Per non parlare dei litigi su villa Pamphili, o del siluramento di Goffredo Bettini (amato un tempo da entrambi, sponsorizzato oggi da Walt) al ministero dei Beni culturali.
La verità è che Rutelli e Veltroni incarnano due declinazioni opposte di lessico politico, anche nella prospettiva del partito democratico: a Rutelli piacerebbe essere un piccolo Tony Blair, con i suoi «big talk», i palazzinari e il generone che stravede per lui. Veltroni ha in mente un kennedismo all’amatriciana, un po’ Lorenzo De’ Medici, un po’ Petroselli. Rutelli – da vero «piacione» – ama piacere alla gente che piace, Veltroni vuole piacere a tutti, aderire alla società come ad un guanto, da Nunzio D’Erme ad Alberto Michelini, (il bello è che gli riesce). Alla fine, la verità è che hanno più o meno la stessa età, più o meno lo stesso curriculum, più o meno lo stesso sbocco naturale: la leadership del dopo-Prodi. Qui finiscono le affinità: perché Rutelli viene da una cultura radicale ma si è innamorato in tarda età del partito (il Ppi prima, la Margherita poi). Veltroni invece viene da una cultura di partito, e ha trovato una nuova identità nella coalizione. Entrambi passano da Roma e puntano a conquistare Roma. Il primo con la sua fitta tela di relazioni nella classe dirigente, il secondo con il suo progetto nazionalpopolare, le sue notti bianche, la sua città-evento, quella che Marcello Veneziani per sfottere ha definito: «Romaset».
In un paese normale, due tipi così sono fieri avversari: come Tony Blair e Gordon Brown, come Segolène Royal e François Hollande, come Gerard Schröder e Oscar Lafontaine. Solo nella sinistra italiana i nemici per la pelle fanno conferenze stampa e convegni comuni, combattono spalla a spalla, si applaudono in pubblico e si sfidano sui tassametri. Poi, un bel giorno, tra un sorriso e l’altro si piantano una coltellata nella schiena.
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