Alle otto e mezzo, per un attimo, nel corteo pacifista si sfiora la guerra. Accade quando davanti ai manifestanti di sinistra che si sono raccolti a piazza San Marco, sul lato sinistro di piazza Venezia, nell’immensa aiuola che è davanti al Campidoglio, si materializzano, con un raid che ha qualcosa delle strategie mordi e fuggi, un gruppo di giovanissimi ragazzi della comunità ebraica, che agitano le bandiere bianche con la stella a cinque punte azzurra e iniziano a urlare slogan, che suonano più o meno: «Cari italiani, adesso tocca a voi». Sono attimi in cui sembra che tutto possa precipitare: in mezzo alle bandiere arcobaleno e alle tante bandiere di Rifondazione, infatti, c’è anche una bandiera meno nota, bianca con due fasce rosse e in mezzo un alberello verde. È la bandiera libanese. E così, quando arrivano gli sbandieratori che provengono dal ghetto e che sicuramente erano diretti alla fiaccolata prevista di lì a poco in sinagoga, succede di tutto: cori contrapposti, «Libano libero», una rapida digressione di reciproci insulti, e per un attimo sembra che si stia andando alle mani, se non fosse che proprio lì vicino un drappello di celerini ha la prontezza di riflessi di mettersi in mezzo alle due pattuglie di manifestanti. E quando il passeggero di un bus grida «Sporchi ebrei» e viene inseguito con calci e pugni al veicolo, sono ancora i poliziotti a evitare il peggio.
È una Roma incendiata dal tramonto e dalla protesta: piazza Santi Apostoli, migliaia di tassisti furibondi; piazza San Marco, le bandiere della pace e sul Lungotevere, all’altezza della sinagoga, le stelle di David. Al corteo dei pacifisti, che inizia a sfilare (per fortuna) in direzione opposta, verso il Colosseo, c’è tutto lo stato maggiore di Rifondazione, dal deputato italopalestinese Alì Rashid ad Elettra Deiana (vicepresidente della commissione Difesa), a Claudio Grassi (uno dei «ribelli» che ha annunciato il suo no alla missione in Afghanistan), alla coordinatrice romana Chicca Perugia, al sottosegretario Alfonso Gianni, a tutti i dirigenti locali romani. Ci saranno, sotto questo corteo di bandiere, forse seicento persone, ci sono anche deputati Verdi come Giampaolo Silvestri e Pierpaolo Cento, ci sono i vessilli del Pdci, con in testa Marco Rizzo, che si affretta a dichiarare: «È una fortuna che quell’episodio non sia degenerato in qualcosa di peggio, noi siamo qui per dire che siamo contro qualunque pregiudizio antisionista o antiebraico. Vogliamo due popoli e due Stati e però riteniamo necessario criticare ogni politica di aggressione».
Facile a dirsi, difficile a farsi, quando nella guerra dei popoli si perde il bandolo delle ragioni, ieri più disperati erano i libanesi, che in queste ore si trovano stretti fra i raid israeliani e le milizie di hezbollah. C’è qualche momento di commozione quando la coordinatrice della serata, Alessandra Mecozzi, responsabile internazionale della Cgil, cede la parola a Mohammed Salem, rappresentante della comunità libanese a Roma: «Io parlo a nome di un popolo indifeso, un popolo in cui donne e bambini sono finiti sotto il fuoco della guerra. Chiediamo un intervento della comunità internazionale, la nostra tragedia non può restare nel silenzio e nell’indifferenza generale». Tutti d’accordo sul no alla guerra anche se nessuno sa come se ne possa uscire.
È una Roma incendiata dal tramonto e dalla protesta: piazza Santi Apostoli, migliaia di tassisti furibondi; piazza San Marco, le bandiere della pace e sul Lungotevere, all’altezza della sinagoga, le stelle di David. Al corteo dei pacifisti, che inizia a sfilare (per fortuna) in direzione opposta, verso il Colosseo, c’è tutto lo stato maggiore di Rifondazione, dal deputato italopalestinese Alì Rashid ad Elettra Deiana (vicepresidente della commissione Difesa), a Claudio Grassi (uno dei «ribelli» che ha annunciato il suo no alla missione in Afghanistan), alla coordinatrice romana Chicca Perugia, al sottosegretario Alfonso Gianni, a tutti i dirigenti locali romani. Ci saranno, sotto questo corteo di bandiere, forse seicento persone, ci sono anche deputati Verdi come Giampaolo Silvestri e Pierpaolo Cento, ci sono i vessilli del Pdci, con in testa Marco Rizzo, che si affretta a dichiarare: «È una fortuna che quell’episodio non sia degenerato in qualcosa di peggio, noi siamo qui per dire che siamo contro qualunque pregiudizio antisionista o antiebraico. Vogliamo due popoli e due Stati e però riteniamo necessario criticare ogni politica di aggressione».
Facile a dirsi, difficile a farsi, quando nella guerra dei popoli si perde il bandolo delle ragioni, ieri più disperati erano i libanesi, che in queste ore si trovano stretti fra i raid israeliani e le milizie di hezbollah. C’è qualche momento di commozione quando la coordinatrice della serata, Alessandra Mecozzi, responsabile internazionale della Cgil, cede la parola a Mohammed Salem, rappresentante della comunità libanese a Roma: «Io parlo a nome di un popolo indifeso, un popolo in cui donne e bambini sono finiti sotto il fuoco della guerra. Chiediamo un intervento della comunità internazionale, la nostra tragedia non può restare nel silenzio e nell’indifferenza generale». Tutti d’accordo sul no alla guerra anche se nessuno sa come se ne possa uscire.
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