Luca Telese

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Luca Telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

D’Alema in crisi: se non vado bene mi dimetto

In vista del voto di lunedì sulla missione afghana, per il governo si prepara un weekend di fibrillazione. Di più: si arroventa la polemica fra Massimo D’Alema e la sinistra radicale, si trasforma in una sfida all’O.K. Corral, una guerra aperta del tipo «o me o loro». Nel vero senso della parola: perché il ministro degli Esteri, ieri a Bruxelles, non esita a mettere sul piatto della bilancia le proprie dimissioni. «Se la mia politica estera non va bene – minaccia -, il mio mandato è a disposizione…».
Questi giorni interminabili di distinguo e trattative paiono aver intaccato il voto di prudenza fatto dal titolare della Farnesina. D’Alema mostra di averne abbastanza di «se», di «ma», di «forse», di «puntini sulle i». I patti sono stati già siglati e sono contenuti nel programma elettorale, oltre non si va: questo è il senso della sfida dalemiana ai «malpancisti». E il tono non ammette sfumature interpretative: «La politica estera italiana è chiaramente caratterizzata sulla base del programma elettorale – continua il ministro -. Vi sono chiare novità e discontinuità. Non mi si chiedano stravaganze, perché non sono nel mio Dna…». Anche una «exit strategy italiana», chiesta con forza dalle minoranze di Prc, Pdci e Verdi, «non è pensabile in un contesto di Onu, Nato e Unione europea: sarebbe una exit strategy dal contesto della politica internazionale…».
«Stravaganze», le definisce D’Alema, che seppur di malavoglia resta «in attesa delle direttive del Parlamento, che sta discutendo e ha deciso di scrivere una mozione». Ieri sera tutti i gruppi della maggioranza hanno riunito i propri parlamentari per trovare una «quadra». Ovviamente le assemblee più infuocate sono state quelle di Prc, Pdci e Verdi (al termine di quest’ultima il senatore Bulgarelli ha ribadito il suo voto contrario alla missione). Altra «stravaganza», secondo il lessico dalemiano, sarà quella in programma sabato mattina a Roma, in via dei Frentani: una grande assemblea che metterà insieme tutti i pacifisti irriducibili. Dagli otto «ribelli» di Verdi, Pdci e Prc che hanno annunciato di non voler votare il decreto al leader del movimento arcobaleno Gino Strada, in collegamento da Kabul. E poi attori, giornalisti, politici di estrazioni diversissime: da Enzo Jannacci a Dario Fo, da Giorgio Bocca a Paolo Rossi, a Mario Monicelli.
Insomma, un gruppo di pressione eterogeneo, consistente e dotato di capacità di attrazione a sinistra: una bella grana per chi è impegnato in queste ore a traghettare il decreto legge del governo in porto. Anche perché, come è chiaro dall’accelerazione di D’Alema, concessioni ulteriori al pacifismo non sono all’ordine del giorno. La linea di politica estera non si può contrattare un giorno sì e un altro pure: lo «strappo» parla a nuora perché suocera intenda. D’Alema ieri mattina aveva chiaramente auspicato i voti dell’Udc al decreto di rifinanziamento, considerati invece come una polpetta avvelenata dagli uomini della sinistra radicale. «Chi condivide le misure per il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero è giusto che le voti», aveva detto. Spiegando: «Abbiamo preso un provvedimento ragionevole, equilibrato e l’idea che qualcuno nel centrosinistra possa far cadere il governo su un provvedimento che contiene il rientro dei soldati italiani dall’Irak la trovo abbastanza singolare. Ho l’impressione – sottolinea D’Alema – che chi lo facesse dovrebbe spiegarsi con i suoi elettori più che con me… Non riesco a trovare una posizione ragionevole diversa da questa».

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Una risposta a “D’Alema in crisi: se non vado bene mi dimetto”

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