La prima linea

27 mar 2009

LA PRIMA LINEA -  DAL LIBRO DI SERGIO SEGIO (“MICCIA CORTA”) IL FILM CHE DIVIDERà L’ITALIA: “GIUDICATE DOPO AVERLO VISTO” – “REPUBBLICA” SUL SET

GABRIELE ROMAGNOLI – Repubblica (26 marzo 2009)

ROMA. Seduto al tavolo di un pub Riccardo Scamarcio preparerà un’ evasione, quella della donna che ama. Sul palco, alle sue spalle, una cantante nera. Nell’ aria il fumo, delle sigarette (siamo negli anni Ottanta) e delle polemiche (siamo quie ora). Sono cominciate in anticipo sul primo ciak, stanno accompagnando la lavorazione del film, faranno da trailer all’ uscita nelle sale in autunno. È arrivato il momento di portarle sul set e metterle a confronto con le prime immagini, la sceneggiatura, le opinioni e le intenzioni del regista e del produttore di La prima linea. Il film, è noto, si ispira al libro autobiografico “Miccia corta”. Lo ha scritto l’ ex terrorista di Prima Linea, Sergio Segio, che si è poi dissociato e ha scontato per intero la pena che gli è stata inflitta dalla legge dello Stato. Il nucleo della storia è l’ azione con cui Segio e complici fanno evadere dal carcere la sua compagna Susanna Ronconi, per poter correre ancora un po’ insieme nel vicolo cieco che porta al muro dell’ ulteriore arresto, della consapevole sconfitta. In quell’ azione perde la vita, ucciso dall’ esplosione a “miccia corta”, un innocente, il passante Angelo Furlan, falegname, 64 anni. Ed eccolo lì, Scamarcio-Segio, a spiegare ai compagni come pensa di liberare Susanna (Giovanna Mezzogiorno). Eccolo qui «il film finanziato con i soldi dei contribuenti che esalta il terrorista». È così? Andrea Occhipinti, il produttore, siedea qualche metro dalla telecamera, pesa le parole come ha imparato a fare da mesi: «Il finanziamento pubblico c’ è stato, ma non a scatola chiusa. Sapevano che film era, hanno letto la sceneggiatura. Si può criticare senza aver visto? O, almeno, senza aver letto?». Ho letto il copione. Non è solo il racconto di quell’ impresa, che potrebbe ammantarsi del romanticismo di tutti i gesti privi di un fine, ma carichi di significato. Viaggia su piani temporali sfasati, mostra le imprese criminose e ingiustificabili di Segio e compagni: l’ assassinio del giudice Alessandrini e quello del “traditore” William Vaccher, poco più che un ragazzo spaurito. Usa voci della coscienza: il carabiniere che urla a Segio «Mentre tu studiavi io lavoravo i campi, giù da me! E mi sono dovuto sentire a voialtri che dicevate che quello che facevate lo facevate per quelli comm’ a me», l’ amico degli anni di Lotta Continua che non ha seguito la sua strada: «Siete la prima linea di un corteo che non c’ è. Ogni giorno che passa siete più isolati, la gente non vi capisce». Impone il mea culpa (autentico) alla voce fuori campo di Segio. All’ inizio: «Avevamo torto, ma allora non lo sapevamo». Alla fine: «La mia responsabilità è giudiziaria, politica e morale. Me le assumo tutte e tre». Frasi che ritornano, quasi ridondanti. «Non abbiamo fatto Jesse James- assicura Occhipinti- abbiamo voluto mostrare l’ ambivalenza del personaggio. Ogni volta che ti attrae, poi ti respinge». Può bastare? È ammesso mostrare le ragioni che hanno fondato quel grande torto? Il regista, Renato De Maria, fa una pausa nelle riprese, viene a sedersi. Il film l’ ha voluto lui. Due anni fa, seduto in un bar di Roma, mi chiese retoricamente: «Perché in Italia non si fa un film sui terroristi?». Ventiquattro mesi e molte polemiche dopo conosce la risposta. «Eppure – dice – è necessario. Questo è stato il nostro Vietnam, occorre cercare di capirlo. Queste persone non venivano da Marte, erano dentro la società, figlie di ideologie del tempo. C’ è stata una rimozione totale. Credo per la paura di guardarli in faccia e ritrovarci qualcosa di sé». Penso a “Baader Meinhof” il film tedesco che è stato perfino candidato all’ Oscar, senza scandali. A come ha raccontato la genesi dei terroristi. «Da noi – dice De Maria – mancava una ricostruzione dal punto di vista di chi ha fatto la scelta armata. Si sono fatti film solo sul caso Moro, e Moro cannibalizzava il resto. Questo è un tentativo, occorreva cercare la complessità, altri verranno e potranno avere angolazioni più strette». È l’ ora delle obiezioni. Ho con me un altro libro di Segio, intitolato “Una vita in prima linea”. Leggo la dedica ai figli: «Perché crescendo non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio per un mondo migliore e più giusto”. È questa la dissociazione? Persone buone? Lo andiamo a dire ai figli di Alessandrini e Furlan? «Questa – risponde De Maria – è una posizione di Segio. Noi non facciamo il suo film. Abbiamo preso le distanze. È lui a giustificarsi, il film non concede giustificazioni». Ma l’ identificazione tra il personaggio e la persona che l’ ispira è il tasto dolente, l’ elemento che fa scattare la contestazione. Rafforzata dal fatto, penso guardando Scamarcio recitare, che si è reso il terrorista “figo”. Perché? Risponde Occhipinti: «Si fa un film perché ci si crede, ma anche per attirare il pubblico. È naturale. Scamarcio ha incontrato Segio. Noi l’ abbiamo visto più volte. È una persona che soffre. Ha la consapevolezza di aver sbagliato, di aver pagato, ma anche quella che esiste la volontà che la sua pena non finisca mai». Proprio qui sta il nocciolo della questione: Segio ha dichiarato una guerra e l’ ha persa. Ha subito la pena imposta dalla legge del vincitore, lo Stato di diritto. Avesse vinto lui si sarebbe applicata la stessa legge inumana che ha decretato le esecuzioni di Alessandrini e Vaccher, ma così non è stato per nostrae alla fine sua fortuna. Rappresentare il suo percorso, decodificarlo, capirlo, è il solo modo per evitare che si ripeta. De Maria c’ era, quando percorsi analoghi cominciavano: «Era il ‘ 77, all’ università di Bologna. Il linguaggio si fece improvvisamente violento, alcuni come Maurice Bignami e Barbara Azzaroni predicavano il salto di qualità, l’ innalzamento del livello dello scontro. Non avevamo la percezione del pericolo. Erano come noi, non fantasmi come le Br, erano la nostra generazione. Poi, due anni dopo, arrivarono i morti. E ci svegliammo». È una realtà che il cinema insegna: se c’ è una pistola, prima o poi quella pistola sparerà. Non è affascinante, è terribilmente prevedibile.E non dà via di scampo né alla vittima né al carnefice.

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Br

11 mar 2009

“CI CHIAMEREMO LA BRIGATA ROSSA” – LA GENESI DEL GRUPPO TERRORISTA: ESTATE 1970, “CONGRESSO” DELLE FUTURE BR IN UNA TRATTORIA SUI MONTI DEL REGGIANO CON CURCIO & C. – LE PASSEGGIATE SUI COLLI EMILIANI COME LE MARCE ATTRAVERSO LA SIERRA MADRE…

Da “La Stampa”

UN SAGGIO IN “PRESA DIRETTA”
Esce da Baldini Castoldi Dalai il saggio di Vincenzo Tessandori “Qui Brigate rosse – Il racconto, le voci” (pp. 782, e22). È la «cronaca ravvicinata» della nascita, dello sviluppo e della sconfitta del movimento eversivo che, seminando il terrore, aveva dichiarato guerra allo Stato. Tessandori, che per anni ha seguito le vicende terroristiche per La Stampa, analizza e racconta con questo libro gli avvenimenti e i protagonisti di quella sanguinosa deriva, soffermandosi sui carnefici e sulle vittime, ricostruendo in particolare gli omicidi di Aldo Moro e di Carlo Casalegno.
Quasi in presa diretta riferisce di agguati, progetti, crisi, pentimenti, senza tuttavia tralasciare i punti rimasti ancora oscuri. Con una preoccupazione di metodo: «Ho cercato di lasciare fuori da queste pagine l’alluvione chiamata “dietrologia”, che certo ha un suo fascino e un suo forte sapore, ma nient’altro che la giustifichi».

“CI CHIAMEREMO LA BRIGATA ROSSA”…
La nascita dell’organizzazione fu decisa altrove, sui monti del Reggiano. Quel luogo mi venne mostrato da Tonino Loris Paroli «Pippo», un operaio di Reggio Emilia, uno della colonna Mara Cagol, che ha scontato sedici anni di carcere, ma non per reati di sangue, divenuto più tardi apprezzato pittore. Riferii il suo racconto su La Stampa del 24 ottobre 1991: «L’incontro è “da Gianni”, a Costaferrata di Casina, sulle colline aspre fuori Reggio, quota 650, di fronte ai resti nobili del castello di Matilde di Canossa. Verde e tranquillità, atmosfera familiare, cucina invitante, lambrusco schietto e allegro: anche la rivoluzione ha le sue sane esigenze.
«Perché fra riunioni, dibattiti, discussioni, piani, confronti, litigi, orazioni, deliri, assemblee, canti, analisi, tesi, scazzi, sintesi, accuse, controaccuse, seminari, progetti, sogni e utopie nell’estate del 1970, un’era remota, al ristorante “da Gianni” nacquero le Brigate rosse. Tutto è rimasto come allora. Tonino Loris Paroli, che ha oggi 47 anni, in quei giorni c’era e ha un ricordo nitido. [...] “Quello fu un vero congresso, durò dal lunedì al sabato”.
C’erano i duri di Reggio, quelli “dell’appartamento” e “c’era Sinistra proletaria” quasi al completo, i compagni erano venuti da Milano, da Trento, da Genova, due da Torino.” Come Curcio e Cagol, come Franceschini e Prospero Gallinari, alla fine del seminario anche lui avrebbe scelto la clandestinità. Fa parte del “gruppo storico” dell’organizzazione e nel 1975 viene arrestato a Torino, dove si è trasferito per svolgere il lavoro nel “fronte di massa”.

«È il primo brigatista rosso libero per “fine pena”. [...] Lo hanno condannato a trent’anni: “Un po’ per i fatti delle Br, soprattutto per le ingiurie ai magistrati durante i processi”, spiega. I cancelli del carcere si sarebbero dovuti aprire dopo il Duemila, ma la magistratura milanese ha riconosciuto la continuazione dei reati. Gli piace ridere, ha il carattere estroverso dei contadini emiliani: “Sono rimasto sedici anni in frigorifero”, scherza, ma subito puntualizza: “Non ci sono state parti civili contro di me, insomma, non ho né ferito né ammazzato”.
Quando lo arrestano le Br hanno ucciso una sola volta, a Padova: “Era stato un incidente e, comunque, nessuno negò il fatto. Una caratteristica dell’organizzazione era rivendicare tutto, anche le cose che potevano risultare dannose. Insomma, come ha detto qualcuno, la verità è rivoluzionaria. Sinceramente non so se in situazioni diverse avrei sparato oppure no”.
«Quell’estate era calda. I “compagni”, una settantina, si erano sistemati in molte case del paese. Avevano chiesto aiuto anche al parroco, don Emilio Manfredi, allora quarantanovenne. “Ma poi la canonica l’avevano lasciata da parte”, ricorda il sacerdote. “Di quelle riunioni vennero avvertiti anche i carabinieri, il maresciallo s’informò se disturbavano, poi non si occupò più della faccenda. Mah!, e pensare che fra loro c’erano tutti quelli dei quali si sarebbe parlato per anni. In ogni modo, ragazzi seri, anche troppo, taciturni, a volte stavano tutti insieme, altre si dividevano in gruppetti, per boschi e campi.”
Talvolta le discussioni sembravano risse. “Ma quando parlava Curcio piombava il silenzio. Al contrario, Mara, sua moglie, non era un’oratrice: fece soltanto un mezzo intervento.” Intorno all’una, tutti “da Gianni”, spossati: dalla fatica di preparare la rivoluzione, dalle lunghe ore trascorse al sole e dalle passeggiate sui colli che qualcuno viveva quasi fossero le marce attraverso la Sierra Madre in compagnia di Fidel, di Camillo Cienfuegos ma, soprattutto, del Che. Il Diario del Che in Bolivia era un best-seller e il Piccolo manuale del guerrigliero urbano, del brasiliano Carlos Marighella, era un testo sacro.
“La nostra giungla, dicevamo, sarebbe stata la metropoli e non la selva del Vietnam.” Più avanti, in una di quelle strette gole senza eco, Loris, Renato e Mara avrebbero provato le prime armi. I dibattiti dei futuri brigatisti partivano dalla crisi dell’estrema sinistra, dopo l’attentato di piazza Fontana. Entravano vocianti nel locale e subito il tono delle discussioni si affievoliva. Li attendevano Gianni Incerti e la moglie Anna. “Ma sì, ci avevano detto che erano venuti per motivi di studio e infatti davano l’impressione di esser studenti.
Ma dopo un paio di giorni abbiamo dubitato un po’, ‘non ce la raccontano mica giusta’, ci siam detti. Dopo mangiato si ammucchiavano nel salone, chiudevano le finestre, parlavano da soli, fitto fitto, a voce bassa.” Ma pranzo e cena erano un momento di gloria collettiva. [...] Ricorda l’Anna che il menu era “robusto”. Appena dopo il coro di Bella ciao arrivavano gli antipasti misti: salame nostrano, salsicce, prosciutto crudo, i “ciccioli” micidiali e un frizzantino da far impallidire anche il ricordo di Lenin. Poi i primi: tortelli di bietola caserecci, lasagne, cannelloni, cappelletti in brodo.
[...] «Così per giorni. Le Brigate rosse non erano ancora nate ufficialmente, ma qualcuno già si dava da fare per trovare simbolo e sigla della futura organizzazione». Si pensò alla stella. Ricorda Franceschini: «Come simbolo scegliemmo quella dei Tupamaros uruguayani. Ma non riuscivamo a farla regolare, ci veniva sempre sbilenca, tanto che un giorno proposi: “Perché non la lasciamo così?” Decidemmo d’inscriverla in un cerchio e, per il disegno, avevamo bisogno di qualcosa facilmente a portata di mano: si pensò alla moneta da 100 lire, nacque così il nostro “marchio”».
Bisognava trovare un nome al gruppo. Un giorno di settembre del 1970, mentre a Milano rincasava in 500 col marito Renato Curcio, ragionando ad alta voce su come chiamare il gruppo, Margherita Cagol osservò che il primo «atto di guerriglia in Europa» era stata la liberazione di Andreas Baader, in Germania, ad opera della Raf, la Frazione Armata Rossa. «Nel nostro caso Armata mi sembra eccessivo. Ma brigata mi piace: brigata rossa.»

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