La prima linea
LA PRIMA LINEA - DAL LIBRO DI SERGIO SEGIO (“MICCIA CORTA”) IL FILM CHE DIVIDERà L’ITALIA: “GIUDICATE DOPO AVERLO VISTO” – “REPUBBLICA” SUL SET
GABRIELE ROMAGNOLI – Repubblica (26 marzo 2009)
ROMA. Seduto al tavolo di un pub Riccardo Scamarcio preparerà un’ evasione, quella della donna che ama. Sul palco, alle sue spalle, una cantante nera. Nell’ aria il fumo, delle sigarette (siamo negli anni Ottanta) e delle polemiche (siamo quie ora). Sono cominciate in anticipo sul primo ciak, stanno accompagnando la lavorazione del film, faranno da trailer all’ uscita nelle sale in autunno. È arrivato il momento di portarle sul set e metterle a confronto con le prime immagini, la sceneggiatura, le opinioni e le intenzioni del regista e del produttore di La prima linea. Il film, è noto, si ispira al libro autobiografico “Miccia corta”. Lo ha scritto l’ ex terrorista di Prima Linea, Sergio Segio, che si è poi dissociato e ha scontato per intero la pena che gli è stata inflitta dalla legge dello Stato. Il nucleo della storia è l’ azione con cui Segio e complici fanno evadere dal carcere la sua compagna Susanna Ronconi, per poter correre ancora un po’ insieme nel vicolo cieco che porta al muro dell’ ulteriore arresto, della consapevole sconfitta. In quell’ azione perde la vita, ucciso dall’ esplosione a “miccia corta”, un innocente, il passante Angelo Furlan, falegname, 64 anni. Ed eccolo lì, Scamarcio-Segio, a spiegare ai compagni come pensa di liberare Susanna (Giovanna Mezzogiorno). Eccolo qui «il film finanziato con i soldi dei contribuenti che esalta il terrorista». È così? Andrea Occhipinti, il produttore, siedea qualche metro dalla telecamera, pesa le parole come ha imparato a fare da mesi: «Il finanziamento pubblico c’ è stato, ma non a scatola chiusa. Sapevano che film era, hanno letto la sceneggiatura. Si può criticare senza aver visto? O, almeno, senza aver letto?». Ho letto il copione. Non è solo il racconto di quell’ impresa, che potrebbe ammantarsi del romanticismo di tutti i gesti privi di un fine, ma carichi di significato. Viaggia su piani temporali sfasati, mostra le imprese criminose e ingiustificabili di Segio e compagni: l’ assassinio del giudice Alessandrini e quello del “traditore” William Vaccher, poco più che un ragazzo spaurito. Usa voci della coscienza: il carabiniere che urla a Segio «Mentre tu studiavi io lavoravo i campi, giù da me! E mi sono dovuto sentire a voialtri che dicevate che quello che facevate lo facevate per quelli comm’ a me», l’ amico degli anni di Lotta Continua che non ha seguito la sua strada: «Siete la prima linea di un corteo che non c’ è. Ogni giorno che passa siete più isolati, la gente non vi capisce». Impone il mea culpa (autentico) alla voce fuori campo di Segio. All’ inizio: «Avevamo torto, ma allora non lo sapevamo». Alla fine: «La mia responsabilità è giudiziaria, politica e morale. Me le assumo tutte e tre». Frasi che ritornano, quasi ridondanti. «Non abbiamo fatto Jesse James- assicura Occhipinti- abbiamo voluto mostrare l’ ambivalenza del personaggio. Ogni volta che ti attrae, poi ti respinge». Può bastare? È ammesso mostrare le ragioni che hanno fondato quel grande torto? Il regista, Renato De Maria, fa una pausa nelle riprese, viene a sedersi. Il film l’ ha voluto lui. Due anni fa, seduto in un bar di Roma, mi chiese retoricamente: «Perché in Italia non si fa un film sui terroristi?». Ventiquattro mesi e molte polemiche dopo conosce la risposta. «Eppure – dice – è necessario. Questo è stato il nostro Vietnam, occorre cercare di capirlo. Queste persone non venivano da Marte, erano dentro la società, figlie di ideologie del tempo. C’ è stata una rimozione totale. Credo per la paura di guardarli in faccia e ritrovarci qualcosa di sé». Penso a “Baader Meinhof” il film tedesco che è stato perfino candidato all’ Oscar, senza scandali. A come ha raccontato la genesi dei terroristi. «Da noi – dice De Maria – mancava una ricostruzione dal punto di vista di chi ha fatto la scelta armata. Si sono fatti film solo sul caso Moro, e Moro cannibalizzava il resto. Questo è un tentativo, occorreva cercare la complessità, altri verranno e potranno avere angolazioni più strette». È l’ ora delle obiezioni. Ho con me un altro libro di Segio, intitolato “Una vita in prima linea”. Leggo la dedica ai figli: «Perché crescendo non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio per un mondo migliore e più giusto”. È questa la dissociazione? Persone buone? Lo andiamo a dire ai figli di Alessandrini e Furlan? «Questa – risponde De Maria – è una posizione di Segio. Noi non facciamo il suo film. Abbiamo preso le distanze. È lui a giustificarsi, il film non concede giustificazioni». Ma l’ identificazione tra il personaggio e la persona che l’ ispira è il tasto dolente, l’ elemento che fa scattare la contestazione. Rafforzata dal fatto, penso guardando Scamarcio recitare, che si è reso il terrorista “figo”. Perché? Risponde Occhipinti: «Si fa un film perché ci si crede, ma anche per attirare il pubblico. È naturale. Scamarcio ha incontrato Segio. Noi l’ abbiamo visto più volte. È una persona che soffre. Ha la consapevolezza di aver sbagliato, di aver pagato, ma anche quella che esiste la volontà che la sua pena non finisca mai». Proprio qui sta il nocciolo della questione: Segio ha dichiarato una guerra e l’ ha persa. Ha subito la pena imposta dalla legge del vincitore, lo Stato di diritto. Avesse vinto lui si sarebbe applicata la stessa legge inumana che ha decretato le esecuzioni di Alessandrini e Vaccher, ma così non è stato per nostrae alla fine sua fortuna. Rappresentare il suo percorso, decodificarlo, capirlo, è il solo modo per evitare che si ripeta. De Maria c’ era, quando percorsi analoghi cominciavano: «Era il ‘ 77, all’ università di Bologna. Il linguaggio si fece improvvisamente violento, alcuni come Maurice Bignami e Barbara Azzaroni predicavano il salto di qualità, l’ innalzamento del livello dello scontro. Non avevamo la percezione del pericolo. Erano come noi, non fantasmi come le Br, erano la nostra generazione. Poi, due anni dopo, arrivarono i morti. E ci svegliammo». È una realtà che il cinema insegna: se c’ è una pistola, prima o poi quella pistola sparerà. Non è affascinante, è terribilmente prevedibile.E non dà via di scampo né alla vittima né al carnefice.