Cuori Neri & Cuori Rossi
che hanno riaperto gli album di famiglia
I due autori, seduti ad un tavolino, iniziano subito a rimbalzarsi date e nomi, misurano, l’uno dell’altro, la competenza, la prospettiva, la fede. In silenzio, osservo lo svolgersi di una tatticissima battaglia verbale, nel quale ogni sostantivo, ogni affermazione vorrebbe le sue virgolette, tanto sono pericolosi i significati se travisati.
“Mi sono iscritto alla Fgci nel 1984″ continua Telese ordinando un Chinotto, “l’anno dopo la morte di Paolo Di Nella, l’ultimo dei miei ‘cuori neri’”. Colpito alle spalle mentre affiggeva manifesti a viale Libia, a Roma. Questo omicidio chiude la strage degli anni di piombo, aperta dalla fine assurda di Ugo Venturini, morto di tetano dopo che, sotto il palco di Almirante, era stato ferito da una bottiglia piena di terra. Tra il1978 ed il 1982 soltanto nella capitale si contano cento morti, quattrocento feriti e quasi mille arresti. Sono le cifre di un massacro, che coinvolge quasi esclusivamente giovani tra i diciassette anni ed i vent’anni, tra vittime e carnefici.
Ma mentre Di Nella muore nel suo letto d’ospedale, accade qualcosa di clamoroso: un uomo anziano, un ex partigiano, lo veglia a lungo con le lacrime agli occhi. E’ Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica. Il suo gesto chiude quella stagione all’inferno le cui coordinate erano già state scardinate da un coraggioso editoriale di Eugenio Scalfari su La Repubblica, all’indomani dell’omicidio di Alberto Giaquinto. Noi, la stampa “democratica” non ci stiamo comportando con la stessa passione civile nei confronti delle vittime della “sinistra” e di quelle della “destra”, aveva ammonito Scalfari.
Non è d’accordo Cristiano Armati. Fumando e bevendo birra scalpita all’idea di contenere gli omicidi politici all’interno di un periodo di tensione. Cuori rossi, infatti, si apre con la strage del pane di via Maqueda, a Palermo (ottobre 1944) e si chiude con la vicenda di Nicola Tomassoli, pestato a morte a Verona pochi mesi fa per una sigaretta.
“Io vedo la stagione delle lotte e della violenza piuttosto come una terza guerra civile italiana” dice, “dopo il Risorgimento e quella di Liberazione. Una guerra nella quale servizi deviati, criminalità comune politica e mafiosa si intrecciano nel solito inestricabile groviglio italiano. Una guerra che non si è ancora conclusa e difficile da decifrare. “Ti ricordi Antonino Gioè?” chiede Armati. “Nel 1993 si impicca alle sbarre del carcere di Rebibbia, a Roma. Era stato lui a piazzare l’esplosivo che fece saltare in aria la macchina di Falcone, sotto il ponte dell’autostrada Punta Raisi-Palermo, a Capaci. Ma l’artificiere che aveva preparato il telecomando e avrebbe dovuto azionarlo, e che all’ultimo momento fu sostituito da Giovanni Brusca, era Pietro Rampulla, già militante di Ordine Nuovo. Un filo unisce la malavita organizzata ed il terrorismo nero dai tempi del fallito Golpe della Madonna di Junio Valerio Borghese, il principe nero”.
“Ascolta” replica Telese, “Mara Cagol raccontò che Feltrinelli voleva convincerla ad andare in Grecia a fare un attentato, ma lei si rifiutò. La donna che andò al suo posto, che morì in quell’occasione, era la zia di Carlo Giuliani. C’è un filo, tutto si tiene ed i piani si confondono. ma bisogna sapere distinguere. Nel mio libro lo dico con chiarezza: quegli anni furono un’eccezione nella nostra democrazia”.
Che siano piuttosto la continuazione delle lotte partigiane è invece la tesi sostenuta da Armati nel suo Cuori rossi. Confidando tra l’altro sulle parole del padre di una vittima, quel Paolo Rossi gettato giù dalla scalinata della Sapienza, a Roma, dopo essere stato massacrato a calci e pugni da squadracce fasciste. La cui vicenda ispirò i versi della canzone di Paolo Pietrangeli che divenne l’inno della contestazione, Contessa. “Mi sembra che mio figlio sia caduto in un’azione partigiana” dichiara quel padre “lottando contro i mostri che credevamo di avere sconfitto: la religione della violenza, il rifiuto della cultura, l’ignoranza, la sopraffazione, la barbarie”. C’è una divisione di campo alla quale non ci si può sottrarre. “La sinistra” conclude Armati “non ha mai avuto un’idea della violenza strutturata militarmente come la destra”.
“E’ vero” risponde Telese “anche se non tutta la destra fu violenta. E la divisione di cui parli non è così netta come appare. Basta avvicinarsi, osservare nel dettaglio la biografia delle vittime. Stefano Recchioni, ucciso da un carabiniere con uno sparo in mezzo agli occhi, ascolta De Andrè e Guccini, ha un fratello iscritto a Lotta Continua ed una madre antifascista. Era accorso davanti alla sede del Msi di Acca Larentia, a vegliare i due ragazzi appena morti nell’attentato. Francesca Mambro gli tenne la testa mentre moriva. E giurò che non si sarebbe mai più fatta sorprendere disarmata”. Da chi? Dai nemici. Ma chi erano i nemici, i militanti sulla sponda opposta o le forze dell’ordine?
In Cuori rossi, si racconta l’apparizione sulla scena italiana dei cosidetti Teddy Boys. Movimento nato in Inghilterra alla fine degli anni cinquanta, dal quale discendono skinheads, brigate S.H.A.R.P. e tutto il frastagliato mondo della rabbia che passa attraverso le curve degli stadi, la musica dal punk in poi, il nichilismo anarchico dei black bloc. Pasolini scrisse una sceneggiatura per un film che non fece mai proprio su questi ragazzi, chiamati anche “i ragazzi con la maglietta a strisce” per la loro divisa, che si fecero notare per la prima volta nel luglio 1960 nella battaglia che si combattè a Genova per impedire lo svolgersi di un congreddo del Msi.
I “giovani”, la nuova categoria antropologica. La prima generazione dopo la guerra, che coltiva la stessa disperazione dei padri ma non ha evidenza del nemico. Che si divide, per abitudine probabilmente, in “cuori rossi” e “cuori neri” fin quando è possibile.
Dopo, adesso, resta solo la rabbia. Quella che esercita la violenza come ideologia, e non per difendere un’ideologia. Quella che non si accontenta più di azzerare la politica, perché non ambisce a sostituirla. Per disarmare questa rabbia, non basterebbe più un Presidente partigiano.