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Cuori Neri & Cuori Rossi

set 07 2008 Published by admin under Blog

Faccia a faccia tra i due scrittori
che hanno riaperto gli album di famiglia

Elena Stancanelli, il Venerdì

Un paio d’anni dopo ‘Cuori Neri’ di Luca Telese, libro potente e controverso che raccolse le storie di ventuno “camerati” uccisi negli anni di piombo, esce ‘Cuori Rossi’. “Finalmente” dice lo stesso Telese stringendo la mano di Cristiano Armati, autore del libro in uscita per le edizioni Newton Compton. “Speravo tanto che qualcuno lo facesse. Speravo che il mio libro avrebbe agito come un detonatore, facendo esplodere la cortina di omertà che copre i delitti politici degli anni Settanta. Più di dieci anni di una strage infinita, la cui memoria è stata ibernata. Ma non potevo essere io ad attraversare di nuovo lo specchio e guardare dall’altro lato. Mi ero già preso la responsabilità del racconto dei “morti degli altri”, suscitando scandalo in quanto giornalista di sinistra“.
I due autori, seduti ad un tavolino, iniziano subito a rimbalzarsi date e nomi, misurano, l’uno dell’altro, la competenza, la prospettiva, la fede. In silenzio, osservo lo svolgersi di una tatticissima battaglia verbale, nel quale ogni sostantivo, ogni affermazione vorrebbe le sue virgolette, tanto sono pericolosi i significati se travisati.
“Mi sono iscritto alla Fgci nel 1984″ continua Telese ordinando un Chinotto, “l’anno dopo la morte di Paolo Di Nella, l’ultimo dei miei ‘cuori neri’”. Colpito alle spalle mentre affiggeva manifesti a viale Libia, a Roma. Questo omicidio chiude la strage degli anni di piombo, aperta dalla fine assurda di Ugo Venturini, morto di tetano dopo che, sotto il palco di Almirante, era stato ferito da una bottiglia piena di terra. Tra il1978 ed il 1982 soltanto nella capitale si contano cento morti, quattrocento feriti e quasi mille arresti. Sono le cifre di un massacro, che coinvolge quasi esclusivamente giovani tra i diciassette anni ed i vent’anni, tra vittime e carnefici.
Ma mentre Di Nella muore nel suo letto d’ospedale, accade qualcosa di clamoroso: un uomo anziano, un ex partigiano, lo veglia a lungo con le lacrime agli occhi. E’ Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica. Il suo gesto chiude quella stagione all’inferno le cui coordinate erano già state scardinate da un coraggioso editoriale di Eugenio Scalfari su La Repubblica, all’indomani dell’omicidio di Alberto Giaquinto. Noi, la stampa “democratica” non ci stiamo comportando con la stessa passione civile nei confronti delle vittime della “sinistra” e di quelle della “destra”, aveva ammonito Scalfari.
Non è d’accordo Cristiano Armati. Fumando e bevendo birra scalpita all’idea di contenere gli omicidi politici all’interno di un periodo di tensione. Cuori rossi, infatti, si apre con la strage del pane di via Maqueda, a Palermo (ottobre 1944) e si chiude con la vicenda di Nicola Tomassoli, pestato a morte a Verona pochi mesi fa per una sigaretta.
“Io vedo la stagione delle lotte e della violenza piuttosto come una terza guerra civile italiana” dice, “dopo il Risorgimento e quella di Liberazione. Una guerra nella quale servizi deviati, criminalità comune politica e mafiosa si intrecciano nel solito inestricabile groviglio italiano. Una guerra che non si è ancora conclusa e difficile da decifrare. “Ti ricordi Antonino Gioè?” chiede Armati. “Nel 1993 si impicca alle sbarre del carcere di Rebibbia, a Roma. Era stato lui a piazzare l’esplosivo che fece saltare in aria la macchina di Falcone, sotto il ponte dell’autostrada Punta Raisi-Palermo, a Capaci. Ma l’artificiere che aveva preparato il telecomando e avrebbe dovuto azionarlo, e che all’ultimo momento fu sostituito da Giovanni Brusca, era Pietro Rampulla, già militante di Ordine Nuovo. Un filo unisce la malavita organizzata ed il terrorismo nero dai tempi del fallito Golpe della Madonna di Junio Valerio Borghese, il principe nero”.
“Ascolta” replica Telese, “Mara Cagol raccontò che Feltrinelli voleva convincerla ad andare in Grecia a fare un attentato, ma lei si rifiutò. La donna che andò al suo posto, che morì in quell’occasione, era la zia di Carlo Giuliani. C’è un filo, tutto si tiene ed i piani si confondono. ma bisogna sapere distinguere. Nel mio libro lo dico con chiarezza: quegli anni furono un’eccezione nella nostra democrazia”.
Che siano piuttosto la continuazione delle lotte partigiane è invece la tesi sostenuta da Armati nel suo Cuori rossi. Confidando tra l’altro sulle parole del padre di una vittima, quel Paolo Rossi gettato giù dalla scalinata della Sapienza, a Roma, dopo essere stato massacrato a calci e pugni da squadracce fasciste. La cui vicenda ispirò i versi della canzone di Paolo Pietrangeli che divenne l’inno della contestazione, Contessa. “Mi sembra che mio figlio sia caduto in un’azione partigiana” dichiara quel padre “lottando contro i mostri che credevamo di avere sconfitto: la religione della violenza, il rifiuto della cultura, l’ignoranza, la sopraffazione, la barbarie”. C’è una divisione di campo alla quale non ci si può sottrarre. “La sinistra” conclude Armati “non ha mai avuto un’idea della violenza strutturata militarmente come la destra”.
“E’ vero” risponde Telese “anche se non tutta la destra fu violenta. E la divisione di cui parli non è così netta come appare. Basta avvicinarsi, osservare nel dettaglio la biografia delle vittime. Stefano Recchioni, ucciso da un carabiniere con uno sparo in mezzo agli occhi, ascolta De Andrè e Guccini, ha un fratello iscritto a Lotta Continua ed una madre antifascista. Era accorso davanti alla sede del Msi di Acca Larentia, a vegliare i due ragazzi appena morti nell’attentato. Francesca Mambro gli tenne la testa mentre moriva. E giurò che non si sarebbe mai più fatta sorprendere disarmata”. Da chi? Dai nemici. Ma chi erano i nemici, i militanti sulla sponda opposta o le forze dell’ordine?
In Cuori rossi, si racconta l’apparizione sulla scena italiana dei cosidetti Teddy Boys. Movimento nato in Inghilterra alla fine degli anni cinquanta, dal quale discendono skinheads, brigate S.H.A.R.P. e tutto il frastagliato mondo della rabbia che passa attraverso le curve degli stadi, la musica dal punk in poi, il nichilismo anarchico dei black bloc. Pasolini scrisse una sceneggiatura per un film che non fece mai proprio su questi ragazzi, chiamati anche “i ragazzi con la maglietta a strisce” per la loro divisa, che si fecero notare per la prima volta nel luglio 1960 nella battaglia che si combattè a Genova per impedire lo svolgersi di un congreddo del Msi.
I “giovani”, la nuova categoria antropologica. La prima generazione dopo la guerra, che coltiva la stessa disperazione dei padri ma non ha evidenza del nemico. Che si divide, per abitudine probabilmente, in “cuori rossi” e “cuori neri” fin quando è possibile.
Dopo, adesso, resta solo la rabbia. Quella che esercita la violenza come ideologia, e non per difendere un’ideologia. Quella che non si accontenta più di azzerare la politica, perché non ambisce a sostituirla. Per disarmare questa rabbia, non basterebbe più un Presidente partigiano.

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Libri e anni di piombo

set 06 2008 Published by admin under Blog

Se gli anni di piombo si trasformano in moda letteraria


di Antonio Lodetti – Il Giornale

«La poliziotta rimane un paio di secondi immobile, poi il suo corpo deve essersi ricordato di dove si trova. Perché gira su se stesso e quindi si affloscia sul bagagliaio della pantera. I quattro continuano a sparare. Avvicinandosi. La crivellano. Gonfiano quel corpo ormai inanimato e lo sgonfiano. Pallottole che dilaniano, spezzano, straziano. La poliziotta sta ancora cadendo, i piedi che scivolano nel suo sangue, a terra, che tre compagni hanno aperto il furgone postale e si sono caricati in spalla dei sacchi grigi». Non è l’ultimo noir alla moda né l’articolo di un cronista in vena di forti emozioni; sono le prime pagine di La carne e il sangue di Marco De Franchi (Barbera editore), il romanzo sulle nuove Br. Ci sono gli agguati a Marco Biagi e a Massimo D’Antona, la latitanza, la cattura, la vita in famiglia di coloro che riprendono a combattere «la strategia imperialista» preparando «la formazione politica delle nuove forze militanti».

La carne e il sangue è l’ultimo parto di quella nuova tendenza che trasforma in romanzo gli anni del terrorismo. Un fenomeno dilagante, che vede le librerie invase da romanzi – per lo più di sinistra ma anche di destra – dedicati alla lotta armata. Dopo i saggi, le interviste, i memoriali, gli autodafè (pseudo)culturali, si prova a vivere quegli anni terribili sotto una nuova luce.

Ora si tenta di metabolizzarli. Non si può cambiare la storia, ma si prova a rileggere quei fatti, senza snaturarli o alleggerirli, da una prospettiva letteraria. Anche attraverso il racconto che colora la realtà con un pizzico di fiction, narrato con il ritmo di un film intrecciando realtà, criminalità, terrorismo in vicende tanto vere da sfiorare la leggenda urbana. Come nel nuovo e intrigante Il falsario di stato di Nicola Biondo e Massimo Veneziani (Cooper editore), biografia tra mystery e noir di Tony Chichiarelli. Crivellato da dieci proiettili alla periferia nord di Roma il 29 settembre 1984, Chichiarelli è un perfetto sconosciuto per tutti, anche per la polizia. Eppure per le sue mani sono passate le storie più oscure della Repubblica. È il miglior falsario di quadri in circolazione (si dice che alcuni vip impazzissero per i suoi «falsi d’autore»), frequenta la banda della Magliana, gente di destra, autonomi, Mino Pecorelli, ha organizzato la rapina miliardaria alla Brinks Securmark e, soprattutto, ha scritto il beffardo comunicato in cui si annuncia «il suicidio di Aldo Moro nel lago della Duchessa». In quei giorni Chichiarelli tiene in scacco l’Italia ma nessuno si cura di lui. Poi… «Via Ferdinando Martini. Esterno giorno. Tony parcheggia la Mercedes, Cristina, la sua donna, apre la portiera e solleva il porte enfant per prendere il bambino. Compare una mano con una pistola silenziata. Cristina è colpita da tre proiettili; l’ultimo entra dal cranio ed esce da un occhio. Tony corre in salita e di lì a poco viene colpito da 6 o 7 proiettili, e il killer lo colpisce alla testa con altri due colpi». Nella sua morte si riassume l’inquietante intreccio di criminalità comune, terrorismo e patti scellerati tra Stato, eversione, servizi segreti ancora oggi avvolto dal mistero.

In parecchi di questi libri ci sono omissioni, ambiguità, c’è chi c’è dentro e si chiama fuori e viceversa, ma il fenomeno mostra che le cose stanno cambiando. «Ormai – dice Maurizio Murelli, titolare delle Edizioni Barbarossa e del mensile Orion, ex sanbabilino coinvolto nel giovedì nero di Milano del 1973 – abbiamo digerito quegli anni e la gente apprezza questa letteratura in bianco e nero. Si riconoscono i luoghi, ci si immedesima. È un nuovo genere che avrà molto da dire e che definirei moderno neorealismo».

Di opposto parere è Giacomo Sartori che scrive: «Gli anni di piombo sono un fenomeno italiano che a rigor di logica si presterebbe a essere romanzato e che dal punto di vista letterario non ha prodotto quasi nulla». L’approccio romanzesco a quegli anni segue mille rivoli e mille diverse motivazioni. Si va dalle riflessioni personali tra presente e passato (L’inganno di Andrea Santini, L’amore degli insorti di Stefano Tassinari, entrambi per Tropea) al percorso militante (Terroristi brava gente di Sergio Lambiase, Marlin editore, che racconta in modo provocatorio l’iter dall’autonomia al terrorismo) alla galleria di personaggi noti o meno noti della politica attiva (Un’altra generazione perduta di Renzo Paris, De Donato-Lerici editore). Si passa dalla ricerca di amicizia e umanità tra irriducibili, pentiti e traditori (Il sogno cattivo di Francesca D’Aloja, Mondadori), alla terribile e cruda fotografia di alcune esperienze militanti (Insurrezione di Paolo Pozzi, DeriveApprodi editore, che parte con la cronaca tristemente famosa di una manifestazione dell’Autonomia) o, visto da destra, il percorso realista, ma condito da punte narrative epiche di Gabriele Marconi (Io non scordo, Fazi) per approdare al romanzo che sfiora le vicende passate come un gioco di specchi su cui costruire nuove realtà narrative. È il caso di Cesare Ferri che, anche lui da destra, del suo Una sera d’inverno (edizioni SettimoSigillo) dice: «In ciò che scrivo inserisco esperienze di vita vissuta, quindi momenti del mio passato, che fanno da semplice contorno alla trama. Credo che, per risvegliare le menti intorpidite di oggi, sia inutile rivisitare gli anni della propria o altrui lotta politica che, alla fine, sollecita solo morbosa curiosità». Ci sono poi casi letterari come Avene selvatiche (Marsilio), il fortunato romanzo tra fantasia e realtà, arroganza e poesia sul mondo della destra milanese scritto dal sanbabilino pentito che si firma Alessandro Preiser.

Il falsario di stato ha riportato alla ribalta il caso Moro, su cui sono state scritte milioni di pagine a partire dall’esemplare Affaire Moro di Sciascia; un saggio certo, un’analisi critica, ma in cui lo scrittore siciliano scrive: «L’impressione che tutto nell’Affaire Moro accada in letteratura, viene da quella specie di fuga dei fatti in una dimensione immaginativa. Tanta perfezione può essere dell’immaginazione, della fantasia, non della realtà». E così Sciascia si ricollega al Pasolini di La scomparsa delle lucciole e i prodromi di questa new wave affondano indietro nel tempo, come sottolinea Demetrio Paolin in Una tragedia negata, appropriatamente sottotitolato Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (edizioni Il Maestrale). I romanzi su Moro recenti spaziano da Piove all’insù di Luca Rastello (Bollati Boringhieri), che privilegia la dimensione introspettiva a Corpo di Stato di Marco Baliani (Rizzoli, nato come opera teatrale) in cui «la Storia diventa un arazzo sul quale si innestava una costellazione di storie più piccole, episodi, nomi, compagni di cui avevo perso le tracce dentro di me». Operazione che (giustamente) non piace particolarmente a Paolin che riprende: «La tragedia è abbandonata, messa da parte. Moro da protagonista diventa comprimario proprio perché dà fastidio, essendo il suo “corpo rumoroso”, al punto che se si guarda l’immagine di copertina non si può non notare che il bagagliaio della R4 è vuoto». E forse il limite di questa corrente romanzesca sta proprio qui; manca la figura del nemico, nel racconto spesso si nega o si elude il sangue, la tragedia e il clima plumbeo che ha caratterizzato quei giorni. «La letteratura italiana non ama la tragedia; i testi portano al limite del tragico e poi si arrestano, spaventati di andare contro la propria stessa identità», conclude Paolin. Il tragico in realtà entra ed esce da queste pagine che cercano di emendarsi in un difficile equilibrio tra ricordo, sensi di colpa, rimorsi. Ma quando la tragicità emerge è come un fiume in piena, come nel dramma della scelta clandestina di Cuore rovesciato di Giampaolo Spinato (Mondadori), di Razza bastarda di Cristina Masciola (Fanucci), o nella voglia di uscire da quel giro a costo del suicidio, come narra Claudio Castellani in Il marito muto (Tropea).
Come sottolinea Ermanno Paccagnini, in un saggio su Vita e pensiero, spesso il romanzo su terrorismo e affini utilizza il linguaggio del poliziesco. Sarà perché fu una tragica stagione di guardie e ladri (in cui tutti si sentivano guardie), sarà perché è il terreno più fertile e antico su cui questi racconti hanno attecchito. Come non ricordare i «sottofondi» politici di certe inchieste del Duca Lamberti di Scerbanenco, o romanzi di Loriano Macchiavelli come Sui colli all’alba (Einaudi), o ancora il suo intenso Questo sangue che impasta la terra, scritto a quattro mani con Francesco Guccini (Mondadori). Anche la musica, simbolo della rivolta giovanile, rivive in racconti come Una bomba al Cantagiro di Marco Amato (Piemme), «spy story» tra le canzoni anni 60 e la strategia della tensione, e soprattutto nel lirico Questa notte non si balla (Cairo) di Marco Bernardini (nipote di Sergio, mitico boss della Bussola), storia che mischia la contestazione di Sofri e Capanna e il Capodanno dei ricchi alla Bussola nel 68.

Tra molotov e bombe, spranghe e P38, manifestazioni , icone di Mao e di Hitler fino alle nuove Br, la rivoluzione tiene banco in libreria. Impazzano i racconti sulla «meglio gioventù». Anni formidabili, diceva qualcuno; ora tocca ai romanzi conservarne il ricordo. Saranno utili culturalmente o serviranno soltanto a fare la fortuna, speculando sugli altri?

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