Blog

17 Agosto 2011
Telese: “Smaschero i politici bolliti”

A uno come Luca Telese va messo il sale sulla coda. “Sono in partenza da Cagliari”. “Sono appena sbarcato a Fiumicino”. E’ in riunione con i colleghi de “Il Fatto”, ha appena registrato una puntata di “In onda. Lo inchiodo in viaggio sulla sua macchina a metano, direzione Fregene, che va a trovare il figlio Enrico, il nome del celebre nonno. C’è un vento sempre che lo spinge, che sono le tante cose da fare ma anche il suo narcisismo, magnitudo 12 nella scala Mercalli della vanità egoica, ma è un narcisismo allegro, che mette allegria, mai cupo e permaloso. Cagliaritano, 41enne, sposato con Laura, giornalista anche lei, sorella minore di Bianca Berlinguer, faccia da messicano evaso da un romanzo Luis Sepulveda, dove si nasce declamando la rivoluzione e ci si ritrova a quarant’anni a dire senza sensi di colpa “noi televisivi”. “Adelante con juicio” fa a se stesso cocchiere. Panciuto ma non per questo depresso, spregiudicato ma con un suo metodo, smanioso di dire quello che pensa e anche quello che non pensa, purché sia stoffa mediatica da vendere al pubblico. E’ il tipo, Telese, che, segregato in un container senza porte e finestre, s’inventerebbe comunque qualcosa, fonderebbe una casa editrice o quanto meno scriverebbe una sua ricostruzione del giallo del Marchese Casati. L’ha fatto. Senza nemmeno l’alibi di vivere chiuso in un container. E’ da poco uscito da una turbolenta riunione nella redazione romana de “Il Fatto”.
“Sai qual è il paradosso? E’ che all’esterno siamo percepiti come a un giornale partito, monolitico…”
E invece?
“Siamo un giornale serbo-croato. Ogni riunione di redazione è un happening. Può succedere di tutto. Dieci teste pensanti, diverse una dall’altra, che in questo momento storico sono in equilibrio tra loro, ma domani chissà. Un direttore, Antonio Padellaro, che viene dal “Corriere della Sera”, Marco Travaglio che è un montanelliano antiberlusconiano, io che sono un berlingueriano doc, Massimo Fini un anarco-libertario collegato da Milano, poi arriva Furio Colombo, ex azionista torinese e ambasciatore che dice cose tremende sulla Fiat. Tu mi dirai: che c’entriamo io e Travaglio nello stesso giornale?”.
Già, che c’entrate?
“Niente. E infatti litighiamo spesso”.
Su cosa litigate?
“L’ultima volta su Nichi Vendola. Che, secondo Travaglio è una sorta di criminale politico, a me invece sta molto simpatico e lo considero una persona di qualità. Lui poi difende D’Alema. Che invece a me voleva spaccare la faccia”.
Questa la raccontiamo.
“Gli vado sotto a Montecitorio e gli faccio: “Scusi presidente…”. Lui si toglie gli occhiali da sole e se l’infila nel taschino. “Vede, quando avevo vent’anni, dopo che io avevo terminato questo gesto, la persona che stava nella posizione in cui sta ora lei, si ritrovava a terra con il naso fracassato e sanguinante…Non parlo con coloro che infangano la mia dignità”.
D’Alema, un pericoloso picchiatore?
“I casi sono due, o D’Alema insulta solo me o gli altri colleghi non lo scrivono quanto lui è maramaldo e spaccone. Certo, mi diverto molto quando gli parte la voce metallica dell’incazzato”.
Li odia lui i giornalisti.
“Ti ricordi quando disse: (imita la voce metallica di D’Alema) “Ai giornalisti che mi rompono i coglioni vorrei spezzare le ossa una a una e prenderli a calci in culo?”. Ecco, quando dice queste cose, mi fa morire. Il vero talento di D’Alema era rubare il posto a Corrado Guzzanti”.
Sei uno che si vanta di stare sulle palle a parecchia gente, non solo a D’Alema.
“Manca spesso nella nostra categoria il gusto del nemico. C’è l’idea malsana che il bravo giornalista debba essere amico di tutti. Io do il meglio di me quando non sono sdraiato davanti l’interlocutore”.
Mai provato ribrezzo per te stesso dopo un’intervista particolarmente sdraiata?
“Vendola mi piace, ma quando è venuto da me gli ho fatto 40 domande una più tosta dell’altra. Alla fine, mi fa con la zeppola: “cavolo, Telese, mi hai massacrato”. I lettori de “Il Fatto” mi accusano di essere troppo indulgente con i cattivi di destra. In particolare, un’intervista troppo sdraiata con Alessandro Sallusti, il direttore de “Il Giornale”.
Vero?
“Da sinistra tutti lo vogliono dipingere come un demone e allora a me, che sono comunista, sardo e berlingueriano, scatta un meccanismo contrario. Mentre a quelli di sinistra non ho mai fatto sconti. Mi considerano un picchiatore”.
Sallusti ha una faccia da demone. E’ all’altezza della sua faccia?
“Assolutamente sì. L’ultima volta che l’ho intervistato era appena scampato da un’operazione al cuore. Il medico l’aveva dato tecnicamente morto e lui aveva questa faccia da sopravvissuto. Una volta mi raccontò: “Sono nipote di un generale che andò a morire con Mussolini, io voglio fare lo stesso con Berlusconi”. Ha qualcosa di crepuscolare Sallusti. Uno così mi pare stupido considerarlo un lacchè”.
Tre personaggi da cappa e spada, Sallusti, Feltri e Belpietro.
“Messi insieme sono materiale per un grande romanzo italiano alla Gadda. Amori e odi incrociati, una mobilità estrema. Puoi pensare il peggio dei tre, ma sono un rutto liberatorio rispetto a certo conformismo italiano anche di sinistra”.
Giornalisti conformisti di sinistra. Da te ci si aspettano nomi e cognomi.
“Intanto Gianni Riotta, che mi ha onorato annunciandomi una sua querela. Quelli come lui ci hanno raccontato fino all’ultimo la favola di Prodi grande statista della storia repubblicana… Considero Giovanni Floris un bravissimo ragazzo, uno pulito, che non se la tira per niente, non fa la rockstar, ma il suo “Ballarò” è veramente un house organ del centrosinistra. A me piace avere in studio quelli che hanno idee opposte alla mia. Mi hanno massacrato per avere ospitato Borghezio dopo la sua sparata sulla vicenda di Oslo. Per me questo è fare giornalismo”.
A proposito di diabolico, la coppia Sallusti-Santachè. Un accoppiamento da manuale.
“A proposito di donne che cambiano gli uomini. Abbiamo misurato l’influenza della Santanchè su Sallusti, quando ha cominciato a togliersi i suoi completi stile divisa e ha cominciato a vestirsi con maglioni girocollo esistenzialisti. Mi accusano di avere una debolezza per il gossip, ma questo è il grande romanzo popolare alla Balzac. Da direttore chiederei un pezzo alla settimana sui due”.
Ti sei appassionato anche a Tremonti.
“Altra storia bellissima. Tanti eufemismi, tanta ipocrisia. Aldo Cazzullo mi odia a morte perché ho trovato ridicolo quando lui racconta Milanese come un compagno delle passeggiate in montagna di Tremonti, a sua volta spacciato per un santo inconsapevole di avere al suo fianco un poco di buono. Ma ti pare credibile? Tu scegli un collaboratore che spende 8 mila euro a notte al Plaza e non ti fai delle domande?”.
Augusto Minzolini, come lo collochiamo?
Non è giornalismo. Lui fa un altro lavoro. Direi un lavoro di rimozione. Il titolo che lo inchioda è: “Assolto Mills”. Mills non è mai stato assolto. Anche Vittorio Feltri è un giornalista di destra, lui magari titola “Sentenza di merda”, ma non nasconde la notizia. Del resto, la peggiore condanna di Minzolini è l’estratto conto della sua carta di credito aziendale…”.
Alludi?
“Che, nell’anno della crisi, abbia fatto da direttore un giorno di trasferta su tre è una cosa ridicola. Della destra non ne parliamo, il partito degli onesti è stato sepolto da una risata con Cosentino che applaudiva in prima fila. Ma a sinistra non siamo messi meglio. Bersani che dice “attenzione alla macchina del fango”! Ma quali macchine del fango?! Arrestano il tuo principale collaboratore e non devi neanche dare una risposta?”.
Parliamo di “bolliti” in politica. Dammi la tua classifica.
“Ci sono tre grandi bolliti nella politica italiana. Berlusconi al primo posto. Che fa dire a Lino Banfi: “ho visto Silvio depresso”, negando il Berlusconi di tutta una vita, il mito del fitness costruito con tanta caparbietà. Il secondo è Bossi, il terzo D’Alema. Tre grandi storie che hanno deciso la fine della prima Repubblica e ora sono arrivati alla fine loro stessi”.
Fini e Veltroni li teniamo fuori?
"L’errore fatale di Fini è stato quello di non dimettersi da presidente della Camera. Lo ha fregato la vanità. Se si fosse liberato del suo scudo, avrebbe potuto giocare una nuova partita politica. Ma ha ancora tempo. Mi piacciono i personaggi, che cadono e tornano. Veltroni è un piccolo principe disarcionato. Ha chiuso come politico ma potrebbe iniziare una carriera da rockstar. Ho visto le mamme che piangevano mentre raccontava del suo libro su Vermicino. Io stesso ho pianto. Lui dovrebbe reinventarsi stile Antonio Ricci. Fossi Piersilvio, darei a Veltroni un programma tipo “Striscia” in chiave melodramma. Certo, se vuole tornare a fare il leader salvifico è finito anche lui”.
Nel deserto estivo dei palinsesti tu imperversi con la Costamagna tutte le sere su La7 con “In onda”.
“Abbiamo appena registrato una puntata con il tuo amico Maurizio Costanzo. Si è presentato con la sua ironia molto amara: “Ma che me state a fa’ il coccodrillo?”. E’ stato molto bello. E’aerrivato anche Enrico Mentana con il figlio e si è messo a guardare dietro a un cameraman. Costanzo gli ha chiesto: “E tu che ce stai a fa’…”. Mentana, che è sempre un sarcastico, ha risposto: “Sono venuto a far vedere a mio figlio cos’è la televisione italiana…”.
Che rapporti hai con Mentana e Lilli Gruber?
“La Gruber la vedo poco. Con Mentana abbiamo una frequentazione goliardica, da compagni di banco. Lui, da mezzobusto, è sempre in giacca e cravatta ma sotto tiene i jeans strappati e una volta stava anche in boxer. Io mi metto dietro la telecamera e gli faccio la linguaccia e lui, appena scatta lo spot mi fa: “Telese sei proprio uno stronzo!”.
Mentana con i boxer fa pensare a Travaglio che scappa in mutande sotto il terremoto, un cult di youtube.
“E comunque Travaglio stava a casa sua, mentre Mentana queste cose le fa in studio, con la troupe, il regista, le segretarie. Gli piace fare il dissacrante, ha il gusto della battuta a raffica”.
Questa storia della guerra con Luisella Costamagna, tua compare di studio. Quanto vera e quanto giocata?
“Tutto vero. L’unica cosa su cui andiamo d’accordo io e Luisella è che la televisione non deve essere finta. Per il resto, abbiamo tempi e idee televisive diverse”.
Tutti e due di sinistra.
“Sì, ma lei è una sabauda snob, mentre io sono un nazionalpopolare, mi piace litigare alla festa dell’Unita come a quella del Secolo. Luisella mi rimprovera spesso: “Ma come, dai del tu ai colleghi in onda?!”. E io non capisco. Se gli do del tu fuori, perché dovrei passare al lei in studio? La verità è che siamo due modelli antitetici e questo salta fuori in video”.
Vi hanno scelto per questo.
“E’ la perfidia dei dirigenti di La7. La cosa funziona. In giro per l’Italia, la gente mi chiede: “Ma dov‘è Luisella?”. Ci vedono come Sandra e Raimondo. Hanno bisogno di pensare che noi abbiamo una storia insieme per il fatto che lavoriamo insieme. Sta diventando anche lei una diva nazionalpopolare, a suo dispetto. Sul mio sito non puoi sapere quanti, nelle ricerche, mettono come parole chiave “Luisella Costamagna cosce”.
Questo la farà inorridire.
“Eccome. Luisella è molto “vorrei ma non posso”. Vorrebbe essere riconosciuta come la grande intellettuale della sinistra ma anche che le guardino le tette. Allora deve rassegnarsi al fatto che qualcuno poi vada a pescare nel torbido. Detto questo, lei è una grande secchiona che si prepara maniacalmente e questo è un contributo per la trasmissione”.
Ha detto: “Con Telese mi sento un’insegnante di sostegno”, lasciando capire che sei un ragazzo difficile da gestire.
“A me piace arrivare in studio magari all’ultimo momento, dopo esser stato una giornata a Montecitorio a vedere le facce dei politici. Lei si prepara sulle agenzie e considera questa mia cosa come emotività e bozzettismo”.
Televisivamente sei nato con Chiambretti.
“Un anno e mezzo come autore di “Chiambretti c’è” è stata una palestra grandiosa. Mi fece esordire lui in video, ma mi scappò una battuta in più rispetto al testo e lui alla fine m’inseguì dandomi del”coglione stronzetto”. Non mi fece più apparire e mi disse che la televisione non faceva per me”.
A parte la Costamagna, abbiamo parlato poco di donne. Con le due Berlinguer come te la cavi?
“Mi mettono in mezzo. Con mia moglie Laura il rapporto è difficile. Se avesse sentito quello che ti sto raccontando, mi avrebbe molto disapprovato. Lei è una specie di carro armato, vive per la cronaca, studia a fondo i processi, m’interroga e quando non so le cose mi dice che non posso fare questo mestiere. Per il resto, siamo una famiglia tipica italiana, niente che possa far arrapare il pubblico. Il nostro karma è quando vediamo la sera un dvd insieme”.
E la cognata Bianca?
“Bianca è molto più scanzonata, ha molta più romanità dentro, cazzeggia, fa battute”.
Più socialmente utile Saviano o Moccia?
“Moccia non è socialmente utile, anche se i lucchetti di ponte Milvio sono stati un radicamento nell’immaginario dei ragazzi. Di Saviano non mi piace il personaggio, il mito guerriero, però Gomorra è una grande libro che mi sono divorato. Il rischio è che sia il suo primo e ultimo grande libro”.
La persistenza di Emilio Fede?
“Non riesco a capire quelli che non ce la fanno a staccare. Sono miliardari, chi glielo fa fare di mummificarsi in tivù? Ci sono colleghi che, quando si spegne la luce rossa, sono morti. In questo senso la carta stampata è un antidoto. Lo stesso Costanzo è drogato di televisione. Se si fosse tirato indietro dieci anni prima, sarebbe stato molto meglio…”.
Ti hanno mai detto che somigli a Clemente Mimun?
“Sei il primo. Non vorrei che si offendesse lui… E poi lui è asciutto, mentre io faccio collezione di diete fallite. Lo incontro spesso la domenica a Porta Portese negli orari più strani. Il mercatino di Porta Portese è una droga. Incontro spesso anche Dini con la scorta dietro che contratta furiosamente per strappare un euro da un portacenere che ne costa cinque…”.

Giancarlo Dotto – Diva e Donna