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27 Giugno 2019
Dalle notti con Berlusconi all’Agi

Chi è Mario Sechi, il nuovo direttore dell’Agi

E alla fine Marione è tornato. “Mario Sechi, da Cabras-USA”, come talvolta dice di se stesso scherzando, in una datazione improbabile e metafisica che unisce le sue radici nuragiche e ancestrali alle sue passioni anglosassoni e postmoderne.

Mario Sechi è il nuovo direttore dell’Agi, la più importante agenzia di informazione indipendente italiana. Lo diventa dopo aver passato un periodo di felice (per lui) purgatorio, quello che ha fatto seguito alla sua ultima prima pagina firmata per Il Tempo, poco prima delle elezioni del 2013. Quasi sei anni di intervallo – un mezzo esilio – in cui l’uomo (che non ama stare mani in mano) ha fondato una newsletter a pagamento chiamata List (un innovativo progetto giornalistico distribuito via mail e in digitale). Di fronte ad alcuni colleghi, talvolta ammirati e talvolta stupiti di questo inedito modello di business, Sechi spiegava: “Se non c’è un editore abbastanza lungimirante da farmi scrivere quello che voglio, devo trasformare me stesso in un editore così lungimirante da potermi pubblicare senza nessuna censura. Eh eh eh!”.

Come avrete già capito da queste righe, sia nel caso che lo conosciate sia in quello che non lo abbiate mai incrociato in una delle sue innumerevoli comparsate televisive, se c’è una cosa che non manca a Sechi è la personalità. Ovvero la caratteristica che lo ha reso anche noto al pubblico della Rai e de La7.  A metà degli anni duemila Sechi irrompe sul piccolo schermo come opinionista, commentatore, mattatore, e addirittura ospite pressoché fisso, della #Maratonamentana.

Sardo, due figli, una sorella minore che lavora nel mondo dell’economia a Milano, famiglia borghese, sposato con una insegnante molto appassionata al suo lavoro, Sechi è un uomo estroverso, e – soprattutto – molto (auto)ironico. Se era arrabbiato, gridava in redazione: “Ricordate che vengo dalla terra dei Giganti” (e si riferiva ai guerrieri del Monte Prama, ritrovati vicino a casa sua nel 1974, che risalgono al XIII secolo avanti Cristo e sono il più antico reperto scultoreo nella storia del mediterraneo). E quando era di buon umore invece diceva: “Ricordate che vengo dalla terra dell’oro!” (e in questo caso invece intendeva il cosiddetto “Oro di Cabras”, cioè la bottarga di muggine, che proprio nel suo paese raggiunge la qualità più sopraffina di tutta la produzione nazionale).

È nato nel 1968, ha fatto in tempo a collezionare una fugace militanza giovanile a sinistra, ma poi si è formato a Milano, dove ha costruito la sua identità liberale e – negli ultimi anni – in America, dove è diventato anche atlantista. Si è formato come giornalista nei quotidiani di Vittorio Feltri, e come uomo macchina in quelli di Maurizio Belpietro. Poi ha camminato sulle sue gambe. Nella sua fortunata carriera, da Il Giornale a Libero, passando per L’indipendente, da Panorama a il Tempo, passando per l’Unione Sarda, alla corte di Sergio Zuncheddu (ancora oggi è columnist del più venduto quotidiano sardo), per non dire de Il Foglio, per cui ha collaborato a più riprese, fin dai tempi di Giuliano Ferrara, Sechi scrive indifferentemente di politica nazionale ed estera.

Ha una vocazione particolare per le analisi di scenario, il gusto per il dettaglio, ma anche per la battutaccia greve, talvolta addirittura in romanesco. Basterebbe – per rendere l’idea un siparietto dell’ultima nottata elettorale, quando lui discettava con riferimenti e digressioni storici, politici e letterari e Mentana impaziente lo incalzava: “Mario, hai finito?”. E Sechi, per nulla turbato, allargando il suo sorriso: “Enrico, ho appena iniziato, quindi fammi concludere!”. E poi, poco più tardi, creando un tormentone. Mentana: “Mario, almeno stavolta hai finito?”. E lui, con il solito ghigno spavaldo: “Enrico, sto parlando anche a nome del collega che mi ha preceduto”. Mentana, divertito: “Veramente lui non sta dicendo nulla. Parli solo tu!”. E il neo direttore, mostrando fogli fitti di appunti e dati elettorali: “Perché lui sintetizza i concetti e poi io li elaboro. Facciamo gioco di squadra. Adesso, per cortesia, fammi finire, Enrico”. Cult.

In sintesi: vulcanico, talvolta prolisso, ma mai contorto, secchione e studioso, poligrafo, capace indifferentemente di dettare un pezzo lungo una pagina a braccio, o di chiudere mezzo giornale da solo. Sempre attivo, come quando – era già oberato di impegni da capo della redazione romana de Il Giornale, nel 2003 – impose a se stesso un corso full time di inglese ultra-intensivo, lo stesso che gli ha spalancato le porte dell’America (non solo sul piano delle relazioni, ma anche della formazione e della cultura).

Mario era sempre nel suo ufficio, notte e giorno, ma per un’ora al giorno, tutti i giorni, la porta perennemente aperta improvvisamente si chiudeva per accogliere una professoressa madrelingua che gli faceva tutoraggio. Capitava così, che – talvolta – i giornalisti, solitamente tardoni, soprattutto di prima mattina, potessero tuttavia irrompere, magari per caso, proprio nel mezzo della sua full immersion linguistica mattutina. Al che Mario, con il suo senso della battuta, fulminò tutti affacciandosi nello stanzone degli inviati: “Vorrei sottoporvi questa mi forbita nota di servizio. Potete trovarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma MAI rompermi i coglioni quando sto studiando con la mia tutor!”. E giù risate.

Perché Sechi appartiene a quella categoria di direttori che non amano la distanza dalla truppa: ufficiale napoleonico, imbullonato alla sua poltrona, sempre in trincea, sempre un libro nuovo (letto per davvero) impilato sulla scrivania e poi magari a bere fino a tardi sotto la redazione con un collega, e magari in giro per la notte di Roma.

Come quella sera che, passando dalla sede del Giornale di via Due Macelli si ritrovò nella “sua” edicola notturna fianco a fianco ad un signore che sgomitava per farsi spazio. Sechi stava per fulminarlo quando si accorse che era Silvio Berlusconi. Si mise a chiacchierare con il Cavaliere – che all’epoca non lo conosceva – che discettava sui suoi gusti nella stampa periodica, mentre aveva in mano una copia di Astra.

Il giorno dopo Mario scrisse il retroscena che passava dalle riviste al governo e finiva con l’astrologia, e ci fu (persino nella sua redazione) qualcuno convinto che, dati i temi dell’intervista e le confidenze del Cavaliere,  si trattasse in realtà di una sceneggiata a tavolino, e che l’intervista fosse stata concordata, e poi trasformata in finta conversazione casuale: “Come si può immaginare – dicevano i malevoli – che un editore parli con un suo redattore, alle due di notte, davanti ad una edicola notturna?”. Commento di Sechi: “Siete fortunati che non sono direttore, altrimenti vi avrei licenziati tutti”.

Il suo rapporto diretto con il Cavaliere, però, era iniziato proprio quel giorno. Questo per dire che se Marione era così già agli albori della sua carriera (quando l’ho conosciuto) immaginatevi cosa può essere diventato dopo venti anni di esperienza successivi tra redazioni, giornali e Palazzo.

Sechi è uno che ha trasformato persino il suo strabismo in una virtù (un modo diverso di guardare) uno che tira fuori il sangue dalle rape: sa gestire gli uomini, perché trova in modo intuitivo talenti nascosti. Ha fatto – credo – un solo grande errore, quello di essersi candidato come capolista (nella sua Sardegna) della lista Monti, nel 2013. Una scelta che gli costò una mezza Fatwa negli ambienti berlusconiani.

Prima del voto del 2018 si è spostato su posizioni eurocritiche, non perché partisse da posizioni “sovraniste”, ma piuttosto perché legato al suo cordone ombelicale con la diplomazia a stelle e strisce, che lo ha portato a adottare in Italia una linea moderatamente “trumpiana”. Se ha una simpatia nella nuova maggioranza è quella per Paolo Savona, con cui si intende perché da conterraneo parla la stessa lingua del Professore.

Ha perso un occhio quando era bambino, colpito per sbaglio in un drammatico incidente domestico. E tuttavia non si è mai pianto addosso un solo secondo perché dice: “Si può avere un occhio solo e vederci molto meglio di chi ne ha due. Se non altro perché lo strumento che muove le pupille è il cervello”. Poi, ovviamente, sorride.

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