L'Unione Sarda

10 Giugno 2019
Per chi suona la campana

Se perdi in una città – Ferrara – che governi dal 1946 ti devi preoccupare. Se perdi due grandi comuni dell’Emilia Romagna dove la sinistra ha sempre governato, nella tua casa deve suonare un allarme. Il motivo per cui la Lega festeggia e il centrosinistra deve vagliare con molta attenzione questi risultati elettorali è molto semplice: tra pochi mesi si vota in regioni che sono rosse da settant’anni, e che oggi rischiano di essere contese e conquistate dalle coalizioni di cui Salvini è il perno. È già successo, dopo il voto, in Friuli, in Abruzzo, in Basilicata e in Sardegna. Può accadere ancora.

Per capire il segno vero di questa tornata amministrativa, dunque non bisogna ascoltare i proclami di vittoria dei leader, e nemmeno guardare solo la cifra assoluta dei comuni conquistati da una coalizione o dall’altra. È necessario, piuttosto, valutare il numero delle città che con questo voto hanno mutato la colazione che le governa. Ed ecco i numeri: è vero che lo schieramento guidato dal Pd ha prevalso in 109 comuni. Ma è vero anche che tra i comuni in cui si votava il centrosinistra ne ha persi ben 40, uno su tre. Esattamente come il M5s, che ne governava (solo) quattro e ne ha conquistato (solo) uno, perdendone ben tre, subendo una sconfitta simbolicamente importante come quella di Livorno (che cinque anni fa fu la prima grande città a diventare “gialla”). Viceversa, è vero che la Lega e il centrodestra vincono in 75 comuni: il dato da valutare, però, è che prima, tra questi, ne governavano appena 39, e che oggi ne hanno conquistato ben 36 in più rispetto al passato. Quasi il doppio.

In queste ore il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ripete: «Il voto dice che l’alternativa alla Lega siamo noi». Senza dubbio è un dato politico importante per un segretario che si è insediato solo da pochi mesi, dopo aver raccolto il Pd al suo minimo storico. Ma essere alternativi non significa anche essere competitivi. Cioè in grado di vincere. Anche perché si sta verificando un fenomeno inedito: dagli anni Settanta ad oggi le regioni e gli enti locali erano il contrappeso naturale del governo nazionale. Gli italiani, con grande saggezza, hanno sempre usato i diversi livelli elettivi di cui disponevano, per bilanciare i diversi poteri e impedire ad un solo schieramento di fare “rubamazzo”.

Nel pieno dell’era democristiana, per dire, le grandi città andavano a sinistra con la famosa avanzata del 1975 del Pci di Enrico Berlinguer che portò sindaci “rossi” a Torino, Napoli e Roma. Poi, con le elezioni regionali, iniziò la stagione delle “giunte rosse”, che fece da contrappunto al lungo periodo di governo nazionale del Pentapartito.

Nel momento della crisi della Prima Repubblica i sindaci di sinistra targati Pds – ancora una volta Roma e Napoli e Torino – aprirono la stagione delle illusioni di Achille Occhetto: ma poi nel 1994 a livello nazione (a sorpresa) vinse Silvio Berlusconi. Tuttavia mentre a Roma governava il Cavaliere, i governi locali diventarono il terreno di rivincita dell’Ulivo, e quando invece nel 1996 vinceva Prodi inizió a radicarsi il governo della Lega sui territori. Poi ci fu la stagione dei sindaci e dei governatori “arancioni” votati con le primarie come risposta alla crisi del Pd (la Puglia di Vendola e la Milano di Pisapia, la Genova di Doria, la Cagliari di Zedda) e infine – ancora una volta a Napoli e a Torino, a Parma e a Livorno – scoppiò la grande fiammata dei sindaci gialli che portavano il M5s al governo mentre a Roma imperava il renzismo.

Adesso, per la prima volta, l’onda prevalente delle amministrazioni locali sembra muoversi in sincronia con quella nazionale, il successo alle europee di Salvini (primo partito a Strasburgo) si sovrappone a quello delle amministrazioni locali. In altri tempi alla notizia che la Lega aveva raccolto il 40% in Emilia Romagna, diventando il primo partito, avremmo pensato ad uno scherzo. Oggi è accaduto: in una città come Piacenza – per fare un esempio clamoroso – il Carroccio è arrivata al record del 49% nell’eurovoto. La Lega conquista un consenso d’opinione anche in comuni dove non ha rappresentanza politica.

Il Pd tiene a Reggio Emilia ma ha perso sia Ferrara che Forlì. Dove non ha sindaci al secondo mandato – questa è la novità – il centrosinistra soffre, e la coalizione in molti territori è ai minimi termini. Il centrodestra, invece, può contare su tre forni a geometrie variabili. Secondo una eloquente mappa pubblicata da uno studioso come Ilvo Diamanti su La Repubblica, Salvini è primo nel voto europeo in 76 province con la sola Lega. Tocca il 40% con l’asse neroverde (con la Meloni), e il 49% (prendendo in considerazione la coalizione classica con Forza Italia). Il centrosinistra – invece – si è ossificato intorno al Pd, per effetto della cosiddetta vocazione maggioritaria: è primo in solo sei province ed è prima forza solo nei centri delle città (con il cosiddetto “partito Ztl”). Ecco perché se Umbria, Toscana, Emilia (e anche il Lazio) sono diventate contendibili, il Pd rischia di ritrovarsi, per la prima volta nella sua storia, di fronte ad un monocolore tinto di verde sia a livello locale che nazionale.

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