Pubblico

3 Ottobre 2012
Il dolore, Valerio Un simbolo per Roma

di LUCA TELESE

Io me la ricordo, Rina, che mi fa sedere in cucina e parla. Io me la ricordo, come se fosse ieri, che mi racconta del rubinettino della dialisi che aveva in pancia, di quel giorno tremendo in cui il sangue di suo figlio era rimasto incrostato sul divano di casa, del ragazzo con il cappuccio che l’aveva legata, delle preghiere spese invano perché Valerio non tornasse, del cuore che le si era schiantato in petto quando aveva sentito suonare il campanello.

Io me la ricordo con lacrime di rabbia in gola quando dei dementi avevano imbrattato di vernice il murales per Valerio appena finito, io mi ricordo quando mi aveva detto con voce lieve, come se parlasse di altro: «Ho preso il porto d’armi, Luca». E io, stupito: «Ma perché?». E lei: «Perché un giorno io lo rivedrò quello che ha sparato a Valerio, sai. Un giorno, prima che muoio, lo ritroverò, non ho dubbi. E allora, quel giorno, dovrò perdonarlo o sparargli. Ma devo poterlo scegliere».

Rina è morta questa estate, ma non ha sparato mai. Hanno ragione gli amici di Valerio Verbano. Ha ragione Walter Veltroni, nella lettera che pubblichiamo qui, con una presa di posizione condivisa da tutti quelli che hanno visitato quell’appartamento e conosciuto la mamma di Valerio, Rina Carla. Con tutte le case che si sono regalate o svendute, ai furboni della Casta a Roma, forse sessanta metri quadri di Roma possono essere consacrati alla memoria di una persona pulita e splendida come lei, una di quelle che ha testimoniato finché ha vissuto.

La casa di via Montebianco 144 dovrebbe diventare un piccolo museo. È una casa di un ente, è una casa piccola, ed è una casa che sta dentro una geografia di sangue che a Roma riassume in meno di un chilometro tutto il senso degli anni di piombo. A piazza Gondar, dall’altro lato della ferrovia b – lo spazio di uno sguardo in linea d’aria – nel 1983 muore un ragazzo del Fronte della gioventù: si chiama Paolo Di Nella, ed è l’ultima vittima degli anni di piombo.

Mentre Valerio muore a via Montebianco, nel 1980. È un ragazzo del movimento che muore dentro la sceneggiatura del delitto più feroce della lotta armata. Vanno a suonare a casa, proprio in quella casa. Trovarono Rina, che dice: «È ancora a scuola». Rispondono da dietro la porta: «Apra, signora, siamo amici di Valerio, lo aspettiamo». Rina apre, e non si è mai perdonata di averlo fatto, per tutta la vita che le è rimasta da vivere. Anche questa è una ferita per cui nessuno ha pagato.

Da quel momento in poi si ritrova legata con suo marito in camera da letto. Valerio le ha promesso che tornava, lei prega che non mantenga l’impegno, spera che sia andato in un prato con una ragazza, alla fine sogna che sia caduto con il motorino perché le sembra che stia tardando. Poi però quel maledetto campanello che suona, la porta che si apre, i rumori di una colluttazione, lo sparo, le lacrime, senza nemmeno poter andare a salvare Valerio.

Gli investigatori della scientifica ricostruiranno la scena: Valerio si è trovato di fronte degli sconosciuti incappucciati, si è difeso bene perché faceva karate, ha strappato il cappuccio a uno di loro. Forse è stata quella la sua condanna a morte: poter riconoscere l’intruso. Gli agenti ipotizzano che siano andati a casa sua a trafugare l’archivio che Valerio aveva messo in piedi, con passione da giornalista della controinforma- zione, per schedare i fascisti del suo quartiere. Volevano interrogarlo, la situazione è degenerata.

Mi ha detto un giorno Valerio Fioravanti: «È il delitto più infame del nostro tempo, i Nar non c’entrano nulla». Nel 1980, si era diffusa la voce che a sparare a Valerio fosse stato Nanni De Angelis, un altro cuore nero che di lì a poco sarebbe morto. Nanni era il capo della squadra territoriale di Terza posizione (l’autonomia nera). Non che non ci fossero stati motivi per sospettarlo: Valerio aveva accoltellato Nanni, in una rissa a Piazza Anni- baliano. Ma solo Rina poteva fare quello che aveva fatto.

Me lo raccontò mentre stavo scrivendo Cuori neri. Prese l’elenco del telefono, e chiamò la signora Rosa De Angelis, madre di Nanni. «Vorrei parlare con suo figlio, vorrei vederlo». La signora Rosa disse solo: «Capisco». Abitava a via Ristori, vicino a piazza Ungheria. Andò da Nanni e gli chiese: «Sei stato tu?». Lui rispose : «Te lo giuro, no, mamma» . E lei, inflessibile: «Allora devi andare». Nanni non se lo fece ripetere.

La scena che segue pare tratta da un film western. Si è diffusa la voce. Ci sono tutti gli amici di Valerio che aspettano sotto casa, sem- pre quella casa, sempre in via Montebianco, e forse potrebbe finire con un linciaggio, perché la rabbia è tanta. I genitori di Nanni lo accompa- gnano. Il padre di Valerio scende a prenderlo. Il gruppo si apre, in un silenzio irreale. Nanni sale. Rina lo accoglie, tastandolo. Non ha visto la faccia, ma ha visto il corpo. Lo invitano a sedersi. Parlano. Lo saluta con affetto. Poi il padre di Valerio lo riporta sotto, lo accompagna in macchina.

Come un momento di sospensione impossibile in una guerra feroce. «Non era lui», dice al marito. «Non era lui», mi ripete nel 2006, dopo avermi informato che il divano dove sono se- duto è quello dove è caduto Valerio. Di Nella è un morto nero al confine di un quartiere nero. Valerio è un morto rosso sul confine di un quartiere rosso. Questa è stata la guerra a Roma. Per questo quella casa non può diventare un appartamento a equo canone, ma dovrebbe essere per sempre un luogo della memoria. Rina ha cercato tutta la vita la verità. Abbiamo il dovere di regalarle quel fazzoletto di Roma.

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