Interviste

23 Maggio 2008
Ascanio Celestini

Incontri Ascanio Celestini, e scopri subito che non si arriva al successo per caso. Il ragazzo con la barba sottile che riempie teatri, affolla librerie e inaugura le Biennali – attore monologhista, regista e scrittore  – ha il dono raro di tramutare tutto quel che sfiora in narrazione pura. La seconda cosa che scopri, subito dopo, è che con il suo inseparabile registratore – lo usa per preparare gli spettacoli – Celestini ha valanghe di cose da raccontarti sui paradossi del nonnismo italiano, sulla condizione giovanile, sulla sconfitta della sinistra: molto più di un politico o di un sociologo.
Prova di assaggio. Celestini ha 36 anni. Gli altri mettono insieme curriculum. Lui inizia con il passo tipico del suo racconto a scatole cinesi: “Mi chiamo Ascanio Celestini, figlio di Gaetano e di Piera. Mio padre rimette a posto i mobili, vecchi o antichi, è nato al Quadraro e da ragazzino l’hanno portato a lavorare sotto padrone in bottega a San Lorenzo. Mia madre è di Tor Pignattara, da giovane faceva la parrucchiera da uno che aveva tagliato i capelli al re d’Italia e a quel tempo ballava il liscio. Quando s’è sposata con mio padre ha smesso di ballare. Quando sono nato io ha smesso di fare la parrucchiera”. E’ già un groviglio di storie. Quando è sul palco Celestini fa così: getta cento ami al pubblico, e smette di parlare solo quando li ha tirati su tutti. Oppure. Se deve spiegarti come è finito sui palcoscenici: “Alla maturità, se non ho preso il minimo, sarà stato 38. Il mio compito di latino era corretto così: la prima parola in rosso, e poi tutta una linea blu fino alla fine del foglio. Volevo fare il giornalista, scrivevo per un piccolo e sfigatissimo quotidiano locale, Momento sera, nella pagina della cultura. Il che vuol dire che non mi leggevo nemmeno io. Il direttore ripeteva: ‘Chiedete sempre all’edicolante quante copie ha venduto!’. Le copie erano sempre tre, secondo me acquistate tutte da mia madre”. Però…. “All’Università finisco a Lettere, fondamentalmente per un dettaglio: avevo letto Scrittori e popolo di Asor Rosa. Mi iscrivo ad Antropologia senza sapere cosa si insegnasse, fino ad allora credevo consistesse nel misurare teste ai polinesiani. Poi da lì passo al Dipartimento Musica e Spettacolo, che ora nemmeno esiste più”. Eppure…. “Lì un mio compagno, Nico, mi chiede: ‘Facciamo un corso di recitazione?’”. Inciso: “Fino ad allora ero stato a teatro solo tre – ma dico proprio tre – volte, e nemmeno ci sarei tornato più. Il corso non era nemmeno un corso, una specie di dopolavoro: andavamo a lezione a San Lorenzo, in una sezione del Pci che dopo la Svolta era stata divisa da un muro – proprio un muro! – da una parte il Pds, dall’altra Rifondazione. Dicevano: insegniamo il metodo Stanislavskij….”. Risultato: “Il mio amico Nico  adesso fa il sommelier, io l’attore. Una delle prime improvvisazioni che ci fecero fare, ‘Dio e il diavolo che giocano a carte’, è diventata una fiaba del mio repertorio, in uno spettacolo che si chiama Cecafumo”. Ascanio è così, la prima regola della vita è che non si butta mai via nulla. Lui è uno che costruisce una scenografia con una sola lampadina. Così decido di lasciar pendere gli ami, e provo a intervistarlo.
Perché quella barba da filosofo zen?
(Sorride) “Sai come accade? Prima te la fai crescere non sai perché. Poi inizi a giocarci. Poi ti abitui a una faccia e te la tieni”.
I tuoi erano contenti che facessi l’attore?
“Mia madre non  mi prendeva nemmeno sul serio. Ripeteva: ‘Ma non è un mestiere, è una cosa che fanno in parrocchia!”.
Entri nella tua prima compagnia nel 1996…
“Costruivo maschere. Giravamo per l’Italia con un furgone che si rompeva, facevamo base a Montevaso,in Toscana, avevamo un casale”.
Quando è diventato un lavoro, per te?
“Quando ho visto che riuscivamo a pagare l’affitto del casale”.
Dove vi esibivate?
“In tutti i piccoli e grandi teatri d’Italia, un circuito invisibile per la critica, ma molto radicato e solido”.
Il più piccolo?
“Mi viene in mente Paglieta, vicino Chieti. Si sono conquistati un pubblico di contadini: quando ci vai trovi 500 persone”.
Non sono poche…
“Scherzi? 500 a Paglieta, è più di 2mila al Piccolo di Milano”.
Il posto più sperduto dove ha recitato?
“A Scutari, in Albania. E in italiano!”.
Il posto più cosmopolita dove sei stato in cartellone?
“A Bruxelles, due ore di spettacolo e due di dibattito”.
In Belgio!
“All’estero ci sono attori italiani di cui nessuno scrive, da Raffaello Sanzio a Fausto Paravidino, Emma Dante, Pippo Del Bono, che fanno sempre sold out”.
Non hanno la tua notorietà, però.
“Non sono visibili quanto me, forse. Ma hanno pubblico ovunque. Non esistono solo perché non ne parlano i giornali”. 
E perché non ne parlano?
“Magari non hanno ufficio stampa. L’Italia vive di uffici stampa”
Ti sei sposato sul palco, come i marinai sulle navi?
“E’ accaduto nel 2001. Stavamo facendo uno spettacolo in Emilia Romagna sulle vite, si parlava di matrimoni. Qualcuno disse: ‘Ci vorrebbe un matrimonio vero!’. Il sindaco aggiunse: ‘Potrei celebrarlo io’. Tutti guardarono me e Anna: ‘Perché non voi?’”.
Una cosa che non ti scorderai mai di quell’esperienza?
“La frase più bella di una pensionata Martina, che ci raccontava la sua vita: Vengono i critici? Ma che vonno criticà se è la storia mia?”.
Efficace, ma chissà quanto vera.
“Invece è uno dei segreti del mio teatro. Le autobiografie sono tutte vere e importanti, se non altro per chi te le racconta. Non sono criticabili. Non puoi  ‘recensire’ una carta di identità”.
Però tu le rielabori, le biografie.
“Tutto il mio lavoro parte dalle registrazioni. Quel che faccio è solo montare storie”.
Il tu primo grande successo, Radio Clandestina, nel 2000. Lì le tue storie raccontavano un evento tragico le Fosse Ardeatine.
“Era già un’operazione culturale: passare dall’oralità alla testimonianza. Si può fare storia orale su qualunque cosa”.
A patto che ci sia testimonianza diretta, però.
“E perché? Quello è giornalismo! Posso fare storia orale anche sulla morte di Giulio Cesare. Tutti ne sanno qualcosa, e di ogni cosa c’è un fondamento. Se è più o meno realistico non importa”.
Perché non ami la giornata della memoria?
“Le considero un uso terribile, della memoria. I morti in bianco e nero dei lager utilizzati per creare catarsi”.
Cosa intendi?
“E’ un modo per far passare l’idea che di fronte a tragedie immani, il presente sia comunque meglio. Usiamo l’Olocausto in modo consolatorio”.
E’ sempre stato così, o no?
“Quando iniziai a registrare le storie di mia nonna era esattamente l’opposto. Per i vecchi il passato era sempre meglio. Al punto che dovevo dirle: ‘Ma come? C’erano la guerra, la bomba atomica…”.
 Quando c’è stato questo ribaltamento?
“E’ arrivato a compimento con l’11 settembre. Quello è il nostro evento collettivo, la rappresentazione che ha schiacciato la realtà. Prendi il siamo tutti americani: se faccio storia orale, lì, scopro che la maggior parte erano stranieri! Ma se lo dico sembro matto”.
Cos’è, per uno come te, Il Successo?
“La libertà di dedicare più tempo a un nuovo progetto. Se posso impegnare due anni per un nuovo spettacolo mi sento ricco”.
Cosa si capisce della nostra generazione dal tuo mondo?
“La legalità è un accessorio. Noi siamo tutti autonomi, tutti precari, tutti sottopagati. Con le leggi per certi versi fantastiche”.
Illustrale.
“Le leggi sul teatro non si fondano sull’idea dell’impresa, ma sul principio della sovvenzione”.
Ovvero?
“Si ricevono fondi non in base alle repliche, non per il pubblico, ma sulle ore lavorate di uno spettacolo”.
Il che tradotto in soldoni?
“Se faccio uno spettacolo che costa poco di scenografia, ha un solo attore, fa 300 repliche l’anno e riempie sempre il teatro…”
Per l’impresario dovrebbe essere una fortuna!
“No una tragedia. Ottiene molti più soldi con un grande architetto che spende migliaia di euro di scenografia, se i costumi costano, se ha – eh, eh – un corpo di ballo di 30 ballerine racchie che sviluppa ore e ore di costi”.
E il fatto che non vada a vederlo nessuno?
“Un dettaglio. Anche perché il vero vantaggio è rivendere lo stesso spettacolo con molte ore di spesa e nessuno spettatore, ad un altro teatro sovvenzionato che ti rivende il suo alle stesse condizioni”.
E’ una partita di giro.
“Esatto. Io dico sempre: Ma che mercato? Così il pubblico lo stesso cammello per tre volte, l’ultima con i biglietto!”.
Il sistema consente a uno come te di diventare direttore artistico di un teatro?
(Ride) “Me l’hanno proposto tre volte. In tutti i casi, l’entusiasmo era alle stelle prima del colloquio, esattamente opposto quando ho finito di dire cosa avrei voluto fare. Cosa vorrà dire?”.
Temono che non faresti risultati?
“Al contrario. Se  ho imparato una cosa è che i teatri si riempiono”.
Ma tu sei un affare per un teatro o no?
“Lo stabile dell’Umbria ha fatto salti mortali per prendermi, per i motivi che dicevo prima. Per di più se non faccio nemmeno prove, non produco costi, capisci?”.
Fammi un altro esempio.
“A volte gli enti locali fanno dei bandi di finanziamento…”.
Ritagliati ad personam?
“Sì. Ma metti anche che non lo siano. Se i criteri sono ‘la nuova drammaturgia’ e ‘la territorialità’, un nuovo Amleto non ci rientra. Invece il teatro di cosa dovrebbe parlare se non della contemporaneità? Shakeaspeare faceva questo”.
Così si torna alla compagnia delle  30 ballerine racchie…
“Fanno lo stesso spettacolo con due nomi. E così raddoppiano i finanziamenti”.
Ma è una follia!
“In Italia il teatro funziona così”.
 E il “tuo” call Center dell’Atesia?
“Ho iniziato a lavorarci nel 2005, esordirò con lo spettacolo definitivo nel 2009”.
Cosa hai scoperto di quel mondo?
“Tutto avviene violando la legge. Ad esempio i 3600 precari che racconto – tutti Co.co.pro o Co.co.co – non sarebbero potuti essere precari. Non puoi assumere un pizzettaro a progetto, in una pizzeria”.
Per lo statuto dei Lavoratori?
“Nooo!, per la legge Biagi!”.
Quindi se venisse applicata la Biagi…
“Ti racconto un aneddoto. In campagna elettorale abbiamo fatto vedere lo spettacolo a Bertinotti e Giordano”.
 Avranno scoperto qualcosa…
“Giordano ha fato un lunghissimo discorso contro la legge 30…”
E i ragazzi del call center non erano contenti?
“No! Perché se si applicasse la legge Biagi avrebbero diritto a 5 anni di contributi previdenziali, all’assunzione a stipendio pieno”.
E cosa l’ha impedito?
“Qui viene il bello. La Finanziaria 2007, quella del centrosinistra”.
Che cosa ha cambiato per i lavoratori dell’Atesia?
“In primo luogo ha dato alle imprese il diritto di mettersi in regola pagando solo il 50 per cento dei contributi”.
E poi?
“Gli ha permesso di pagare solo 10% subito, e di rateizzare il resto. Per finire, invece dell’assunzione piena, ha reso possibile contrattualizzarli al minimo, 550 euro. E per di più a condizione di firmare la rinuncia ai diritti acquisiti: che se ci pensi è un’illegalità, condizionata da un’illegallità”.
E i sindacati?
“Hanno sostenuto l’accordo. E il referendum che si è fatto a livello nazionale, con tutti i lavoratori dell’azienda, e non solo gli interessati”.
E come è andato?
“In no a livello nazionale hanno perso. Per forza: votavano persone che nemmeno sapevano di cosa si trattasse”.
Che succede di questi giovani?
“Vengono messi fuori dal mercato del lavoro. E io ho paura che una parte di questi non li recuperi più alla democrazia”.
Il risultato elettorale te lo aspettavi?
“Ho votato Sinistra Arcobaleno, ma per la prima volta mi vergognavo di aver votato”.
Perché?
“Perché la sinistra è scomparsa dal Parlamento dopo essere scomparsa dalla società”.
Dobbiamo chiudere l’intervista con tre babbioni da rottamare e tre giovani da promuovere.
“Oddìo…”.
Il primo obsolescente.
“Vespa, per una motivazione semplice. Ha smesso di fare il giornalista, fa varietà. La televisione si sta rottamando da sola”.
Il secondo?
“Dico papa Ratzinger. E’ fuori parte. Vorrebbe essere ortodosso, amministra una cultura della superficialità”.
 Il sacrilegio vale per due. Proviamo col giovane?
“Un attore, Mario Perrotta. Uno di quelli che fanno 300 repliche e nessuno lo sa!”
E poi…
“Un gruppo poco noto, gli emiliani di ‘O Flaga disco pax’, si può dire che recitano su basi elettriche. Folli e unici”.
Dal teatro politico passerai alla politica?
“Scherzi? Io amo il  mio lavoro. Un giorno Giordano ci ha invitato ad un attivo dello spettacolo. Quattro ore per dire quattro cose. Lui entusiasta: “Fantastico, facciamolo ogni mese!”.
E tu?
“‘Siete pazzi? Io lavoro!’. Ho detto a Giordano: ‘Vieni con me a registrare la cassiera dell’Autogrill, impari di più’. Ero serio. Ma purtroppo ha creduto che scherzassi”.

Luca Telese

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2 commenti »

  1. Il gruppo è offlaga discopax!

  2. Siete fuori del mondo (beati voi). Più Ascanio che Telese :-)

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