Interviste

5 Novembre 2010
Luca Argentero

Non so esattamente quando. Ad un certo punto dopo un’ora di intervista a Luca Argentero mi sono reso conto che tutto quello che credevo di sapere su di lui era sbagliato: ero vittima di un cliché e non me ne ero accorto. Non era un moderno mattatore che arriva in prima linea per istinto e che si solidifica per fortuna. Non era un attore per caso che poi è diventato bravo. Non era nemmeno un ex del Grande Fratello che si è alfabetizzanto strada facendo, non era un bello in cerca di un’anima.
Non so esattamente quando, ma – dopo un’ora di intervista – ho capito che era esattamente l’opposto: dietro la maschera del “bello” mi trovavo di fronte un ragazzo sorprendentemente carismatico, molto strutturato, dal lessico forbito, uno che – quando ha giocato il ruolo del fascinoso – lo ha fatto con calcolo, e persino (come dice lui stesso scherzando) “con un punta di cinismo”. Poi, a fine intervista, quando mi sono messo a ricucire tutti i frammenti di biografia che mi erano rimasti appuntati sul taccuino ho capito un’altra cosa. Che Luca Argentero nella sua vita ha qualcosa del personaggio inventato da qualche narratore inventivo. Un tratto che può sembrare addirittura disneyano. La fortuna di chi nella vita riesce a fare tutto quello che vuole: sedurre, crescere, inventarsi nuovi ruoli. Ho guardato Luca andando via e ho pensato che se fosse a Paperopoli sarebbe un po’ Gastone Paperone, uno di quelli che tutto quello che toccano diventa oro. Adesso arriva nelle sale con una commedia “La donna della mia vita” che pare costruita su di lui. Argentero interpreta un personaggio a due facce: all’inizio figlio fortunato, prediletto e represso. Alla fine della storia, per effetto di un colpo di scena, l’esatto opposto: ribaldo, spregiudicato, donnaiolo. Iniziamo una lunghissima conversazione, in un pomeriggio romano, mentre mi resta l’impressione che Argentero sia riuscito a portare dentro questo ruolo qualcosa della sua storia.
Cominciamo da te. Avevi mai progettato di fare l’attore?
“Mai”.
Da che mondo vieni?
“Una famiglia bellissima, quasi idilliaca. Mia madre casalinga, entusiasta, amorevole. Mio padre imprenditore edile, come mio nonno, impresa fiorente. Il mio destino era già segnato: ma era un altro!”.
Quello del rampollo che eredita la ditta di famiglia?
“Proprio così. Era quello che pensavo di fare, ed era anche quello che mi piaceva. Ricordo da piccolo, quando giravo per Torino con mio padre, che lui mi diceva: ‘Ecco, quella casa l’ha costruita il nonno’. E quasi in ogni quartiere, poteva capitare di trovarne una”.
Era una grande impresa.
“Nel momento di massimo fulgore mio nonno aveva alle sue dipendenze 200 operai. Ero destinato”.
Invece hai fatto tutt’altro.
“Chissà. Mi sono detto che, metaforicamente parlando, costruire una casa, è come costruire un bel film. Deve essere elegante, forte e leggero insieme. E, se è fatto bene, dura”.
Quando ti è venuta in mente questa analogia?
“Sul set del primo film. Uno di quei macchinisti romani che paiono dei vecchi saggi mi disse: ‘Nun fa’ cazzate. Il film rimane’. Quante volte ci ripenso. E’ proprio vero”.
Altri destini possibili?
“Quello su cui avevo scommesso tutto. Sono un tennista mancato”.
Hai fatto agonismo?
“Sono cresciuto in una famiglia di malati cronici dell’agonismo. Pensa che mio padre, a sessant’anni, fa ancora i corsi per mantenere il patentino di istruttore di sci. Mio zio è una guida alpina che ha scalato in Nepal. Quando partono per la montagna bisogna nascondersi, altrimenti ti portano sopra qualche vetta”.
Come andò a finire la tua carriera di tennista?
“Mi allenavo cinque volte a settimana. Sabato e domenica a fare tornei, niente feste né ragazze. Un giorno, però, la doccia fredda”.
Un infortunio?
“No, molto più semplicemente un colloquio brutale con il mio maestro, di quelli che non ti scordi. La frase chiave fu: ‘Forse è meglio se ti iscrivi all’università’”.
Cos’era successo?
Nulla di drammatico. Semplicemente mi aiutò a capire che non sarei mai diventato il nuovo Borg. Ma il trauma era tale che per sette anni non ho più toccato una racchetta”.
Da suicidio.
(Ride). “In parte. Ho potuto riscoprire le ragazze… E rifarmi del tempo perduto. Sai, in un certo senso sono fatalista. Quello che la vita ti toglie ti da”.
Hai studiato dai preti, come i piemontesi di buona famiglia.
“Dai lasalliani, al San Giuseppe. Dalle elementari al liceo. Quanto basta per arrivare alle soglie dell’ateismo. E poi riscoprire Dio, da grandi. Ma in un altro modo ”.
All’università dove ti sei iscritto?
“A ingegneria”.
Carriera folgorante?
(Ride) “Macchè. Ripetute bocciature. Sono riuscito a dare un esame, il primo anno, per non partire militare. Poi ho cambiato facoltà”.
Economia.
“Sì. Dopo un anno di Politecnico tutto mi sembrava facile. Era un po’ come essere stato in Vietnam”.
E poi? Assunzione in azienda?
Macché. Qualsiasi tipo di lavoretto. Mio padre è uno di quelli che teorizza la necessità di non dare la paghetta”.
Cosa hai fatto?
C’è l’imbarazzo della scelta. Il lavapiatti, per esempio. Il funzionario al check in dell’aeroporto. Lo stuart nei congressi. Ma il primo successo lo ho avuto facendo il barman. Un lavoro che ha avuto un peso anche nel mio futuro, ma ti racconterò perché solo dopo”.
Ti secca quando qualche critico snob ti ricorda che sei passato per il Grande fratello?
Nemmeno un po’, anzi. Anche tra vent’anni le mie interviste inizieranno dicendo che sono un ex del Gf. Ma la scelta di fare il provino non avvenne sull’onda di qualche adolescenziale entusiasmo per la televisione, ma per un cinico calcolo da economista”
Addirittura?
“Sì. Pensai che si poteva guadagnare di più facendo le ospitate nelle discoteche che lavando cessi”.
Non è vera la leggenda che fu tua cugina Alessia Fabiani a consigliarti di fare il provino?
“No. Lei mi diede solo il numero di dove chiamare. E non ebbi nemmeno trattamenti di favore, solo un provino con altri duecento, risparmiandomi le file della speranza a Cinecittà”.
Ti ricordi che cosa fece scattare la scintilla in quel primo colloquio?
(Ride). “Non ne ho la più pallida idea!”.
Ma qualcosa ti avranno pur detto….
“Sì: ‘Le faremo sapere’”.
E quando ti fecero sapere?
“Nemmeno un’ora dopo. Il tempo di arrivare dalla periferia a Campo dei Fiori per una birra”.
Ti fecero capire?
“Mi chiesero se potevo tornare lunedì”.
Hai urlato di gioia?
Macchè. Ho detto: ‘Se mi pagate l’aereo da Torino sì, altrimenti no’”.
Non ci credo.
“Te l’ho detto. Avevo, e ho, una certa dose di fatalismo: se le cose dovevano andare, sarebbero andate. E se mi cercavano, evidentemente erano loro che volevano me”.
Sei tornato a Roma, in aereo…
“…E ho scoperto solo dopo che la persona che mia avevano mandato all’aeroporto non era un accompagnatore ma un autore. Anche quel tragitto era un colloquio l’ultimo. Hai capito? E’ stato meglio non saperlo”.
Quando hai saputo che saresti entrato nella casa?
Sono tre giorni prima”.
E dentro che linea di condotta ti sei dato?
“Credo di non aver detto una parola per due settimane. Io stavo studiando gli altri. Ma col senno di poi è stata una scelta giusta”.
Perché?
(Gli scappa un grido) “Dio santo, io non sono uno show man. Io sono un torinese!”.
Che vuol dire?
“Non siamo animali da palco, mattatori. Siamo gente che pensa e riflette”.
Alla fine il calcolo cinico però si è rivelato azzeccato.
“Era il 2003 Arrivarono le serate, le ospitate. In televisione andai pochissimo, meno di quello che prevedeva il contratto. Sul conto avevo quasi 40mila euro. Il mio piano era aprire un’azienda mia”.
E invece, ancora una volta, tutto andò diversamente.
“Uno degli autori del Grande Fratello con cui ero diventato amico mi chiamò a Radio2, a fare ‘Ottovolante live show’. In quei giorni pensavo solo ad essere felice e a divertirmi”.
Cosa facevi?
Il comico bianco, la spalla. Ora penso di essere stato incosciente: mi buttavo”.
Non c’erano più calcoli cinici?
“No, mi guidava un’altra bussola, più edonistica: tutto quello che faccio mi deve divertire”.
Quindi per questo hai accettato anche Sky?
“Sì. Cambiavo ancora, facevo l’inviato”.
E il cinema?
“Non ci pensavo. Mi chiamano a ‘Carabinieri’. Ancora una volta è stata la fortuna a decidere per me”.
E quella è stata la tua vera palestra.
“Carabinieri è una fiction strana: da un lato basta non essere dislessici per poterci essere….”.
Ommamma.
“Lo dico senza offesa, è vero. Ma dall’altro si poteva entrare a digiuno, come me, e imparare tutto. Avevi al fianco gente come Paolo Villaggio, Andrea Roncato… Avevi registi che cambiavano”.
Una cosa che hai imparato lì.
“Una piccola grande lezione che, ho scoperto poi, alcuni grandi autori di teatro non conoscevano. Come prendere la luce, arrivare al segno, tenere i tempi”.
Avevi degli istruttori.
“Acting coach. E gratis!”.
Poi il grande salto, con la Comencini, .
“E anche qui c’è di mezzo la fortuna. Lei accetta di farmi un provino perché Alessandro Casale, un ragazzo che aveva fatto – pensa! – il barista con me a Torino era diventato aiuto regista”.
Non mi dire che non ti ricordi nemmeno questo.
“Come no! Due ore di improvvisazione pura. Lei è fatta così, una maniaca del dettaglio che non lascia nulla al caso”.
E Ozpeteck, per “Saturno contro”?
“Tutto il contrario. Lui non è un regista. Lui fa lo psicanalista di attori”.
E il provino in che consiste?
“Vuole solo essere sicuro che tu sia in grado di capirlo. Sai, Ferzan fa recitare, e bene, anche la sua donna delle pulizie”.
Fammi un esempio.
“Una scena triste. E lui ti fa: ‘Pensa alla cosa più felice della tua vita’. Quello che vuole è creare un cortocircuito dentro di te”.
Ti prepari a una carriera di regista?
“Te l’ho detto che nel sangue sono costruttore… Preferisco produrre un film”.
Hai l’ottimismo del costruttore.
(Ride) “Sai cosa dice mia moglie? ‘Tu hai una dote. E’ impossibile che tu ti svegli con i coglioni girati’. E’ una sintesi un po’ brutale, ma vera”.
Ti sei sposato ad appena 31 anni?
“A me pare tardi. Mi pare assurdo non avere ancora figli!”.
Hai conosciuto Miryam Catania sul set.
“Amore a prima vista. Un altro regalo di Carabinieri”.
Tutti i settimanali vi hanno inseguito per l’esclusiva, e voi avete detto no.
“Abbiamo detto sì alle foto della festa. Un no feroce a quelle in Chiesa. Se sei davanti a Dio non puoi andare anche su un rotocalco, ti pare?”.
E’ vero che “La donna della mia vita” è un film scritto per te?
E’ andata così. La Comencini, dopo avermi visto fare il padre nel primo film di Lucini, mi ha detto: ‘Guardandovi mi è venuta l’idea di una storia con due fratelli diversi, divisi dalla nascita…. La cosa mi ha onorato”.
Raccontate una famiglia tutta diversa dagli stereotipi, con una grandissima Stefania Sandrelli nei panni della madre.
“Sandra è una attrice di una naturalezza geniale. C’è una scena, a tavola, in cui emerge tutto il dramma del segreto che la nostra famiglia nasconde. E nel film è finita una sequenza in cui lei, lasciando il copione, si mette a ridere e a scherzare con tutti noi”.
La cosa che ti sei potuto permettere con il benessere?
“Una casale un campagna”.
La cosa di cui sei più felice sul lavoro?
“Il contratto con la Cattleya, che mi paga per formarmi”.
La cosa più difficile da trovare nel cinema?
“Le belle storie”.
Il rischio più grande per un attore?
“La precarietà. Ci sono colleghi che impazziscono a stare in panchina e io li capisco”.
Michele Placido in un aneddoto?
“Te ne racconto due. Un giorno arriva una convocazione d’urgenza, tutti sul set da Michele. Andiamo. Lo troviamo con una faccia grave: ‘Ragazzi. E’ arrivata la burrata. Io non posso prenderla, sono a dieta, i reni….. Sono felice se la mangiate voi’. Ovviamente è stato il primo a inforchettarla”.
Meraviglioso. E l‘altro?
“Sul set di Il Grande sogno. Ero lo studente di sinistra che deve fare un discorso. Copione bello, complicato, scritto da Rulli e Petraglia, me l’ero studiato per filo e per segno”.
E che succede?
“Dico due parole. Lui arriva, legge il testo, lo straccia, e improvvisa un comizio con le vene del collo che gli scoppiano la voce roca, la troupe che si commuove. Poi scende dal palco e dice: ‘Ecco… una cosa così’”.
Lì ti sei incrociato con Scamarcio, il tuo rivale.
“Non c’è nessuna rivalità possibile. Io non sono come lui. Lui è uno dei più grandi attori della nostra storia. Quando imitava Michele, sul set, avevamo tutti le lacrime agli occhi”.
E tu?
(Sorride) “Io sono uno che ha avuto la fortuna di diventare un buon attore. E che non ha ancora smesso di imparare”.

Luca Telese

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3 commenti »

  1. Past few posts are just a little bit out of track! come on ryan998877.yolasite” click this!

  2. CARO LUCA
    IO TI AMO TANTO MA CON TUTTO IL MIO CUORE

    ILOVE YOU

    TI AMO

  3. LUCA ILOVE YOU

    TI AMO

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