Interviste

3 Settembre 2009
Michele Placido

“Lo so, pochi lo ammetteranno, perché oggi anche gli ex sessantottini italiani sono quasi tutti pentiti o si vergognano della  loro storia… Ma il sessantotto che io racconto nel Grande Sogno, è un sessantotto essenzialmente Americano. Anzi, il sessantotto – il mio perlomeno! – è l’America. Il nostro sessantotto è la libertà, a partire dalle immagini che quell’anno ci ha stampato nei cuori: I’m a Dream e Martin Luther King… l’omicidio di Bob Kennedy… e soprattutto: le cartoline di precetto bruciate, la liberazione sessuale, gli hippies, Woodstock, la mobilitazione contro la guerra del Vietnam. Qualcuno storcerà il naso, immagino che mi diranno che c’erano anche l’ideologia, l’Unione Sovietica, Mao o chissà cos’altro, ma non credetegli. O raccontano storie, o, più semplicemente non c’erano”.
Michele Placido si presenta all’appuntamento in bermuda e t shirt, – fichissimo – e avverte il fotografo che mi accompagna, con cortesia, ma anche con fermezza: “Ragazzi, scusate, non faccio foto posate. Sono trent’anni che mi rifiuto – sorride – non mi arrenderò certo ora…”. La tenuta è giustificata dal caldo. E’ piena estate, Michele è tutto casa e bottega, abita e lavora in uno spicchio della Roma monumentale, incastonato fra via Barberini, via Veneto  e piazza di Spagna. Sta già preparando una nuova regia (su Vallanzasca) ma il 9 settembre arriva a Venezia con il film più importante della sua carriera, quello in cui mette in scena un frammento di autobiografia personale e generazionale, a cavallo fra Ascoli Satriano (il paese del Sud dove è nato e cresciuto) e la Roma di Valle Giulia (dove il sessantotto ha cambiato la sua vita). Fra le suggestioni del bandito Carmine Crocco (“Era un mio avo, sono cresciuto con i racconti delle sue imprese narrati davanti al fuoco”) e le memorie della Contestazione, l’occupazione nel cortile dell’Accademia condivisa con il suo amico Gianmaria Volontè. Ecco perché parlare di questo film è parlare del suo cinema, della sua prima volta sul palcoscenico, di tutta la sua vita.
Placido, la sua è una battaglia culturale controcorrente per riabilitare uno degli anni più discussi del secolo scorso?
“Nemmeno per sogno. Non sono un ideologo, io racconto storie ed emozioni”.
Quali?
“In primo luogo le mie: ero un ragazzo di provincia, passato per il seminario, che aveva iniziato a far politica a destra, nella Giovine Italia per rapporti di paese, e che sognava di fare l’attore, ma convinto che non ci sarebbe mai riuscito…”.
Uno che si trovava a fare il poliziotto a Roma, mentre gli studenti scendevano in piazza.
“Ecco. Arriva il vento del sessantotto, e – senza quasi accorgersene – il ragazzo del sud cambia pensiero, stile di vita, modelli di riferimento. Esce fisicamente e simbolicamente dalla caserma di Castro Pretorio e si ritrova proiettato sul palcoscenico del suo tempo: vuole essere anche lui protagonista”.
Stiamo parlando di Placido o del personaggio che fa interpretare a Scamarcio?
“Di tutti e due”.
Ma perché questo film proprio ora, perché tutta questa passione?
“Per spiegare ai giovani che in certi momenti la storia può andare molto veloce, rivoluzionare le vite. Oggi si passa il tempo davanti alla televisione, ci si istupidisce: si pensa che ideali e passioni non possano cambiare più nulla.
E invece?
“Non era vero allora, e non è vero nemmeno adesso”.
Mi dice il ricordo più incredibile del suo sessantotto?
“Le giornate passate davanti alle fabbriche della Tiburtina a recitare, discutere, distribuire volantini”.
Come in “la Casse Operaia va in paradiso”…
 “Il Natale del sessantotto l’ho trascorso con gli operai, ed è un ricordo bellissimo. Lo rifarei cento volte. Sono più preoccupato del fatto che oggi non ci si indigni più per nulla”.
Teme più i critici o i giudizi degli ex?
“Spero di non offendere nessuno ma mi importa poco di cosa diranno un Adriano Sofri o un Giuliano Ferrara… Tengo molto di più alle reazioni dei ragazzi che hanno la mia età di allora”.
I primi soldi della vita?
“Da poliziotto. 25mila lire al mese. Non erano pochi, potevo persino pagarmi una pizza, ogni tanto”.
La mettevano in punizione perché leggevi giornali di sinistra.
“Ma mica il Manifesto o l’Unità! Bastava Paese sera – vietatissimo! – che aveva una meravigliosa pagina di spettacoli. Oggi pochi ricordano quanto fosse autoritario questo paese”.
Lei non era un poliziotto modello….
“Se per questo non ero stato nemmeno uno studente modello! L’Italia pre-sessantottina era divisa in gironi danteschi, ma prima di tutto fra ricchi e poveri: soprattutto al mio paese”.
Lei era figlio del geometra, una autorità.
“Sì, ma il mio compagno di banco, il figlio del farmacista non lo guardavo nemmeno. Avevo sempre la testa girata verso gli ultimi banchi, dove c’erano i ragazzi di…. cattiva famiglia”.
Il ricordo d’infanzia più nitido?
“Il numero impressionante di vetri e lampioni infranti a sassate. Sono nato ribelle, te l’ho detto”.
 Solo pochi anni dopo lei usciva dalla caserma per caricare gli studenti. 12 mesi dopo occupava l’accademia con le bandiere rosse.
“Ripeto, è come un movimento accelerato. La prima cosa che si dimentica del sessantotto è che all’improvviso saltano le barriere sociali. Le ragazze sognano di andare a letto con gli operai della Fiat E il bello è che poi lo fanno pure!”.
Le daranno del nostalgico.
“A me la nostalgia non interessa. Uscivamo dalla vita in bianco e nero della Rai bernabeiana, sempre pedagogica e paternalista… e ci ritrovavamo nelle strade, in un tempo a colori, pieno di vita”.
Anche il suo primo ruolo teatrale è nel sessantotto…
(Sospirone, testa buttata indietro) “Ehhhh….”.
Gli annali dicono che fu l’Orando Furioso, di Roncone.
“E chi se lo scorda? Eravamo una compagnia di mostri, c’erano anche Ottavia Piccolo, Mariangela Melato…. Mi sembrava che fosse passato un secolo dalla partenza dal mio paesino: nel 1970 mi ero ritrovato in America, in tournè”.
Che parte aveva?
“Ero Agramante, re dei mori”.
Recitava con il viso annerito come Orson Welles?
“Macchè. In jeans e maglietta! Teatro Sperimentale, avanguardia. Andavamo nei teatri off, a vedere quel nuovo modo di recitare, come se scoprissimo un nuovo mondo”.
Si ricorda le battute della parte?
“Non c’era copione!”.
Come non c’era copione?
“Era Avanguardia pura…. Recitavamo in mezzo al pubblico, in piedi su delle pedane, in abiti civili, improvvisando su di un canovaccio. Il vero spettacolo era l’interazione con gli spettatori”.
Cosa si provava?
“Una incredibile sensazione di libertà… Era una liberazione che passava davvero per i corpi e per la testa. Anche questa messa in scena, senza il sessantotto non si sarebbe nemmeno potuta immaginare…”.
Era troppo bello per fare Agramante.
“Il re che invade l’Europa e rompe le catene del vecchio mondo. In pratica ero un po’ barbaro, un po’ extracomunitario. Ma recitando così, ogni sera c’era uno spettacolo diverso”.
E poi c’è il primo vero ruolo cinematografico.
“Il picciotto, un film tv con la regia di Negrin”.
Come giudica i suoi esordi oggi?
“Immodestamente devo dire che, malgrado l’inesperienza, avevo un senso dello spazio molto innovativo: sapevo stare davanti alla camera…”.
E’ vero che non voleva essere truccato?
“Il parrucchiere mi acconciava per mezz’ora. Poi io scompigliavo tutto in un minuto, eh, eh”.  
Non era il modello di attore colto e televisivo che andava di moda in quella Italia.
“A me ‘il modello di attore colto’ fa cagare, allora come adesso”.
Oggi è, anche, un regista di grido.
“Sempre fedele alla massima di Orson Welles secondo cui un buon attore deve leggere ogni tanto un buon libro, ma vivere il più possibile”.
E’ un posa?
“No, una constatazione. Hanno scritto chilometri di bibliografie su Ladri di biciclette…. Però quello che faceva grande De Sica non erano i suoi titoli accademici, quanto il fatto che nei suoi film pulsava la vita vera”.  
Da una prima volta all’altra: la regia di Pummarò, primo film sugli immigrati del cinema italiano.
“Ci ho ripensato molto in questi anni. Meglio dire: uno dei più grandi fiaschi della storia del cinema italiano…”.
Addirittura.
“Uscì in una o due sale, di cui una parrocchiale, stette un week end, e fu subito smantellato”.
Una delusione?
“Per nulla. Andò a Cannes, e piacque. Da noi ebbe un gran riscontro di critica, se lo rivedi oggi ha è attuale, persino profetico”.
Dissero che lei aveva inventato dettagli melodrammatici.
“Imbecilli! Giravamo nelle terre del caporalato, e ci facevano vedere gli immigrati costretti a dormire nei loculi abbandonati dei cimiteri… Se me lo fossi inventato sarei stato un genio”.
Ma aveva un obiettivo?
“Volevo fare un cinema diverso, e l’ho fatto. Io considero Mary per sempre, in qualche modo, il mio primo film, avevo comprato il soggetto: con Risi realizzammo una piccola impresa, e fu un successo incredibile”.
Con “Del Perduto Amore” ha lanciato Giovanna Mezzogiorno.
“Il che mi commuove, perché è figlia di un grande amico. Ma mi rende orgoglioso, perché è una grande attrice”.
E’ vero che dopo il suo litigio con il governatore Lombardo in Sicilia la chiamano meno?
“Sarà una coincidenza. Ma prima lavoravo sempre. Quest’anno avevo in ballo uno spettacolo, una regia e… Nulla, non si sono fatti sentire più”.
Quanto è arrabbiato?
“Come artista per nulla. Ho troppo lavoro, non troppo poco”.
E come cittadino?
“Odio questa faccia del Sud: ancora affogato nelle clientele, talvolta incapace di diventare moderno”
La tua provocazione era che dopo monnezzopoli e gli inquisiti di mafia, i politici meridionali non avrebbero dovuto candidarsi per cinque anni!
“Solo cinque? Oggi forse penso che ce ne vorrebbero dieci”.
Lombardo la accusava  persino di essere antimeridionale.
“Al contrario. E’ perché le amo, quelle terre, che lo dico. E poi sono uno che ha è andato i suoi alunni della scuola di teatro a recitare tra i terremotati. Anche domani sono a l’Aquila”.
E’ un gesto sessantottino?
 “Una cosa bellissima. Prima di tutto per i ragazzi”.
Ma l’impegno oggi cos’è?
“Fare qualcosa per gli altri. Magari anche solo passare mezz’ora, ogni tanto, con Francesco, un ragazzo di 17 anni che stava in ospedale in coma e si è svegliato. Uno dei miei figli quando lo ha scoperto è rimasto stupito. Ora ha capito”.
Dentro di lei c’è un’anima da leader politico.
“Chissà. Io amo il mio lavoro più di ogni cosa. Ma sarebbe bello dare una mano a costruire qualcosa di nuovo”.
Placido è nato ribelle: riuscirà a diventare un saggio?
(Ride) “Non credo che potrei. Per fortuna non ci ho mai provato”.

Luca Telese

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4 commenti »

  1. Bell’intervista. Poi quel modo di essere di Placido. piuttosto irruente, lo trovo fantastico

  2. E aggiungo: Sarebbe bene che Sofri almeno in questo non mettesse bocca, perchè, per dirla con i gruppi di preghiera istituiti da Fulvio Abbate: ” Adriano Sofri hai rotto i coglioni!”

  3. Placido sintetizza bene la differenza tra vita/realtà ed ideologia. La strada che la sinistra ha perso dopo la lezione del ’68. E’ come se certi valori fossero stati svuotati e rimasti immutabili nel tempo, perdendo il contatto con le persone ed il tempo…….
    E’ un intervista molto bella ma anche amara se guadiamo a che punto siamo arrivati oggi. Ma è un’amarezza che non è sinonimo di nostalgia.

  4. Avevo già poca voglia di leggere. Sono arrivato a “I’m a Dream” e mi sono fermato. Già imbattersi nella solita citazione, per la milionesima volta, di questo cavolo di dream, sarebbe bastato a farmi lasciar perdere. Figurariamoci l’effetto che mi ha fatto leggere quello che ho letto. A meno che l’intervista non sia volutamente comica e ironica. In questo caso cambia tutto. Ma ormai ho scritto questo messaggio e non mi va di verificare.

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